Attualitą
Enrica De Stefano
A partire dagli anni Sessanta, il diritto allo sviluppo è stato rivendicato dai Paesi del Terzo Mondo i quali posero, per la prima volta, al centro delle relazioni mondiali il problema della giustizia economica e sociale a livello planetario.
Solo nel 1986, però, si è avuta la Dichiarazione sul diritto allo sviluppo con la risoluzione 21/148 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite che aveva come scopo principale la cooperazione internazionale per la soluzione dei problemi di carattere economico, sociale, culturale o umanitario.
Il diritto allo sviluppo rientra nella terza generazione di diritti, la più recente dopo quelli di prima generazione, definiti civili e politici (all'inizio dell'età moderna) e di seconda generazione dei diritti sociali, culturali ed economici ( al periodo della rivoluzione industriale).
Per i Paesi del Terzo Mondo il diritto allo sviluppo è un diritto fondamentale sia degli individui che dei popoli e degli Stati ed esso non è relativo solo al decollo economico di chi ne è titolare, ma anche al suo sviluppo sociale, politico e culturale. Gli Stati e soprattutto quelli industrializzati dell'Occidente dovrebbero riconoscere e sostenere tale diritto.
In effetti, nel corso del tempo, la preoccupazione volta all'eliminazione del sottosviluppo ha coinvolto sempre più attori globali ed internazionali ed ha visto sorgere sempre maggiori interventi in tal senso.
Nel Millennium Summit del settembre 2000 sono stati elencati i Millennium Development Goals eventualmente realizzabili entro il 2015 ed adottati dai maggiori leader globali, in modo da risolvere tutti i più importanti problemi legati alla mancanza di sviluppo delle aree più depresse ed arretrate del mondo.
Tra le cause principali della vulnerabilità dei Paesi poveri ci sono il percorso verso l'indipendenza e l'esperienza coloniale, l'esposizione debitoria, le guerre, la frequenza di catastrofi ambientali, i regimi politici e le loro scelte, la posizione geografica e la collocazione geopolitica, la scarsa disponibilità di cibo e di acqua potabile, o il difficile accesso all'istruzione, alla sanità, all'occupazione, alla terra, ai servizi sociali, alle infrastrutture nonché la diffusione delle malattie. Spesso queste cause si combinano tra loro e quando l'intreccio è particolarmente perverso l'esito è quasi certamente quello di trovarsi di fronte a un Paese a massima priorità.
Le difficoltà da superare per porre rimedio a queste varie cause di povertà sono molto diverse. In generale, sistemi politici democratici e ‘ben intenzionati' possono fare molto per alleviare le forme più estreme di deprivazione, soprattutto se l'aiuto dei Paesi ricchi si svolge nelle forme e nelle misure più adeguate.
Tra i maggiori impegni dei Paesi avanzati e soprattutto dell'Unione Europea rientrano la riduzione del debito dei Paesi poveri nei confronti delle potenze industrializzate che impedisce di destinare le scarse risorse disponibili a investimenti pubblici essenziali dirottandole, invece, verso i ricchi creditori; ma anche, la creazione delle condizioni per dare alle popolazioni svantaggiate la possibilità di controllare il proprio sviluppo.
La chiave di svolta delle strategie per combattere la povertà è di sicuro il consolidamento dei processi democratici nei Paesi arretrati, nonché l'ampliamento dei loro programmi sociali, il rafforzamento del quadro istituzionale, l'aumento delle capacità dei settori pubblico e privato e la promozione ed il rispetto dei diritti umani, compresa l'uguaglianza tra uomini e donne.
Tutto questo, però, ancora oggi, avviene solo a livello formale, perchè mancano potestà giudiziarie ad hoc dotate di forza cogente, capaci di introdurre la sanzionabilità di eventuali violazioni.
Una regola giuridica non esiste se la sua applicazione non è garantita dall'erogazione di una pena. Fin quando durerà l'assenza di una governance mondiale, i rapporti internazionali saranno retti sempre e solo dagli interessi particolari delle maggiori potenze e dai loro rapporti di forza.
Queste situazioni hanno, in effetti, una significativa rilevanza per il tema dei diritti umani e per il diritto allo sviluppo, perché pongono degli interrogativi sulla effettiva possibilità di costituire un vincolo efficace ad una produzione giuridica che avviene spesso al di fuori dell'ambito statale o intergovernativo.
Già dagli anni Cinquanta del secolo scorso gli Stati Uniti con il Piano Marshall, hanno cercato di rivitalizzare il capitalismo europeo attraverso una regolamentazione pubblica ed investimenti sociali per la ricostruzione degli Stati distrutti dalla seconda guerra mondiale.
Tuttavia, sono indubbi gli interessi politici sottesi alla logica dell'aiuto: le industrie statunitensi avevano un forte interesse nel vedere la riedificazione dei Paesi europei per trovare nuovi sbocchi di mercato per i loro prodotti.
Sin da allora, si sono susseguiti una serie di interventi, a livello globale, che hanno coinvolto molti Paesi ricchi in un impegno a sostegno dei Paesi poveri e le cifre dell'aiuto pubblico internazionale si sono mostrate sempre molto elevate.
Pertanto il sistema di aiuto introduce costantemente nuove idee di sviluppo ed è alla base delle relazioni tra Paesi sviluppati e Paesi sottosviluppati, esso, però, necessita di una sorta di democratizzazione perché tante sono le ambiguità ad esso legate: al di là degli ideali di solidarietà e di fraternità proclamati e posti, teoricamente, alla base dell'aiuto, il "dovere di dare" nasconde sempre più il "desiderio di prendere".
I trasferimenti di fondi dai Paesi ricchi ai Paesi poveri sono molto più modesti di quanto non indicano le cifre ufficiali e spesso, eccessivi sono i ritardi con cui vengono erogati.
Dal 16 al 18 novembre scorso si è tenuto a Roma un vertice FAO per discutere sui provvedimenti da adottare per il grave problema della fame nel mondo, ma non ci sono stati grandi risultati.
Il vertice Fao non ha solamente deluso per la mancanza di impegni economico-finanziari di sostegno al superamento della fame, si è soprattutto rivelato inutile per la mancanza di idee e di un progetto perseguibile per il Sud del Mondo.
La Dichiarazione approvata in sede del vertice, lunedì 16 novembre, sulla base di quanto affermato dal direttore generale della FAO, Diouf non contiene né obiettivi quantificati, né scadenze precise, tutte mancanze che avrebbero permesso al meglio, la realizzazione degli intenti.
Succede molto spesso che per favorire direttamente o indirettamente gli interessi dei Paesi donatori è indispensabile un condizionamento degli aiuti a obiettivi interni al Paese erogatore e a questo punto, l'obiettivo principale dell'aiuto diventa quello della massimizzazione complessiva dei ritorni per quel Paese, piuttosto che il miglioramento delle condizioni di quello che lo riceve.
Se davvero i Paesi avanzati vogliono rispettare gli Obiettivi del Millennio sradicando fame e povertà nel mondo, allora, è evidente la necessità di modificare il sistema esistente.
Decisivo è il complessivo assetto istituzionale, che dovrebbe essere costituito non soltanto da mercati (possibilmente) concorrenziali ma anche da ben congegnate istituzioni redistributive e di protezione sociale, da processi decisionali efficacemente democratici, da affidabili meccanismi di enforcement che tutelino i diritti e limitino la corruzione, dalla capacità di contenere potenti pressioni settoriali e lobbistiche e da relazioni sociali estese e cooperative.
Inoltre, l'eliminazione delle barriere protezionistiche a vantaggio dei produttori statunitensi ed europei basterebbe già per quadruplicare i vantaggi che i Paesi poveri ottengono dai semplici aiuti. Il libero scambio, infatti, è il modo più rapido ed efficace per raggiungere lo sviluppo.
La persistenza di forme estese di protezione commerciale nell'epoca della globalizzazione appare, per alcuni versi, sorprendente, soprattutto se si considerano le ripetute dichiarazioni di fiducia negli effetti della piena liberalizzazione degli scambi formulate dai responsabili politici dei Paesi avanzati e dalle istituzioni internazionali.
Particolarmente negativo è il fatto che queste misure colpiscano piuttosto severamente proprio i settori nei quali i Pvs potrebbero godere di un vantaggio competitivo.
Distruggere un tale sistema, ormai impiantato da anni non è facile, ma c'è chi ci sta provando e sta avendo grande successo.
Il Brasile con il presidente Lula, ma già con i suoi predecessori, ha creato un modello vincente di sviluppo che mira a valorizzare le enorme potenzialità del Paese puntando sullo sviluppo della tecnologia, sullo sfruttamento dei biocombustibili, l'energia alternativa al petrolio; sulle grandi disponibilità di risorse del Paese, sull' impegno del governo nel campo della ricerca, ma anche sul grande contributo dell'immigrazione nonché sulla voglia di imparare e migliorarsi del popolo brasiliano muovendosi, in tal modo, sempre più, verso l'acquisizione dello status di grande potenza.
Il Paese fa parte di quel gruppo di Paesi che insieme formano l'acronimo BRIC (Brasile, Russia, India e Cina ) le cui economie crescono così rapidamente che si è portati a pensare che nel 2050 il loro PIL potrebbe diventare paragonabile a quello di Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Italia e Regno Unito.
E', però, importante capire fino a che punto i Paesi emergenti siano in grado di gestire ed essere il motore portante della ripresa mondiale e quindi di trasformare il loro potere economico in potere politico.
Il Brasile, oggi, cresce ad un ritmo del 5% annuo a dispetto della crisi ed il Presidente Lula immagina di trasformare le maggiori economie emergenti in un'alleanza sul modello dell'Unione Europea capace di rinunciare al dollaro.
Egli sostiene di aver fatto del Brasile un "motore della crescita economica" perché la nazione, in precedenza considerata ai margini dello sviluppo, ora ospita nicchie di valore (uno spazio competitivo a sé stante, relativamente piccolo e caratterizzato da un'offerta di prodotto speciale, la cui promessa di valore è superiore a quella media di categoria e il cui percepito si caratterizza per la sua originalità") nei settori dell'energia, dell'agricoltura, dei servizi e anche dell'hi-tech attirando,così, capitali stranieri in grande quantità fino a trovarsi nell'insolita condizione di poter far sapere al Fmi di non aver più bisogno di prestiti.
Tutto questo è stato possibile grazie a delle scelte vincenti adottate nei due mandati consecutivi dal Presidente Lula a partire dal 2002:
- Ha portato avanti i programmi dei precedenti presidenti e soprattutto il " Plano Real" introdotto dal presidente Itamar Franco insieme al suo ministro dell'economia Cardoso, successivamente divenuto presidente con cui si ridusse l'inflazione permettendo di rendere il Brasile, agli occhi degli investitori esteri più affidabile ed interessante;
- Sin dall'inizio del suo primo mandato ha subito cercato di aiutare le famiglie povere , infatti fu approvato un nuovo piano economico con la riforma delle pensioni e venne varato il Programma "Fame zero", un insieme di azioni del governo brasiliano, con l'obiettivo di realizzare una politica alimentare capace di combattere la fame nel Paese, in una forma realmente partecipativa evitando assistenzialismo e paternalismo.
- Ma soprattutto, così come è stato sottolineato nell'intervista con la dott.ssa Torres, funzionario dell'ambasciata brasiliana a Roma, il vero motore innovativo della crescita su cui il Presidente Lula sta puntando è l'etanolo da canna da zucchero.
Esso è la spinta dei profondi cambiamenti nell'agricoltura, nell'industria e nella matrice energetica del Brasile.
Alle critiche globali che indicano l'etanolo come principale responsabile dell'esplosione dei prezzi degli alimenti, il Presidente Lula ha risposto che i biocombustibili possono avere un importante ruolo nella lotta alla fame, poiché creano reddito e stimolano l'acquisto di alimenti.
Egli sostiene che i veri responsabili dell'aumento nei prezzi dei beni alimentari sono il rialzo del petrolio, il protezionismo agricolo e la speculazione finanziaria e che la coltura della canna da zucchero- che oggi occupa l'1% delle terre arabili del Brasile- non minaccia la foresta Amazzonica in quanto la produzione di alcool è concentrata nella zona sud est del Paese. Infatti, tra il 2004 ed il 2007 c'è stata la riduzione del 59% nel disboscamento, il che significa una riduzione di cinquecento milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica nell'atmosfera in questi tre anni.
La lotta contro la fame, la povertà e la disuguaglianza è stata e continua ad essere un obiettivo centrale del governo di Lula, pertanto, asserire che la promozione di biocombustibili possa essere causa della crisi alimentare, sembra fuori luogo.
Per il presidente brasiliano, la lotta contro la fame e l'espansione dei biocombustibili sono due iniziative complementari e non contraddittorie. L'espansione della produzione dell'etanolo a partire dalla canna da zucchero è stata parallela alla crescita della produzione di beni alimentari.
Per combattere la fame è necessario generare reddito e, per tale motivo, il Brasile sostiene l'importanza dell'estensione dei biocombustibili ai paesi africani, latinoamericani e caraibici, nonché asiatici in modo tale da offrire loro alternative di generazione di occupazione, di reddito e di autonomia energetica. Condizioni, queste, che possono contribuire a risolvere il problema della migrazione disordinata: le opportunità di lavoro e di progresso possono impedire forti flussi di popolazione dalle aree più povere del mondo verso le più ricche. Nessuno lascia il proprio Paese volontariamente: questo succede perché non si ha più la possibilità di sopravviverci in maniera dignitosa.
Poi, dal momento che il mercato europeo può comprare etanolo brasiliano solo se il prodotto ha un certificato internazionale che attesti la sua produzione in maniera ambientalmente sicura e socialmente giusta, gran parte dei produttori brasiliani sono in grado di rispondere a requisiti sociali ed ambientali. Il governo brasiliano è pronto, tra l'altro, ad implementare misure per aiutare tutti a raggiungere determinati standard.
Le più recenti critiche rivolte ai biocombustibili sono basate soprattutto su una forte disinformazione: molti mezzi di comunicazione sembrano ignorare la distinzione fondamentale tra etanolo a base di canna da zucchero e quello a base di mais; essi, però, sono due prodotti con caratteristiche diverse.
E' solo nel caso dell'etanolo da mais che si può parlare di impatto sul prezzo degli alimenti, poiché al contrario della canna, il mais partecipa a molte catene alimentari. Inoltre, l'etanolo da canna da zucchero è molto più competitivo di quello da mais. Per ogni unità di energia spesa nella produzione di etanolo da mais negli Stati Uniti, è possibile generare soltanto una unità e mezza di energia. Per quanto riguarda l'etanolo da canna del Brasile, tale proporzione è di uno a otto, inoltre, la canna non riceve sussidi per la sua produzione né è protetta contro importazioni più a buon mercato da tariffe doganali.
Il Brasile non favorisce la produzione di etanolo a base di mais per ragioni di sicurezza alimentare ed economiche, promuovendo uno sviluppo sostenibile del Paese.
Il Brasile non aspira ad occupare da solo il mercato mondiale dell'etanolo. Vuole essere uno dei tanti, in quanto, in caso contrario, l'etanolo non prospererà come combustibile in grado di sostituire totalmente o parzialmente l'uso della benzina nel mondo.
Gli investimenti stranieri nel segmento etilico- saccarifero brasiliano sono sempre maggiori e questa è una prova del fatto che le qualità dell'etanolo sono evidenti. Molti, infatti, sono gli imprenditori che investono e confidano nel futuro dei biocombustibili come alternativa pulita, economica e rinnovabile di energia per il futuro.
La vera e propria innovazione introdotta in Brasile è l'ingegneria del flex fluel che permette di costruire motori delle automobili che utilizzano benzina, alcool o entrambi, mischiati, in una qualsiasi proporzione ed avere la possibilità di optare tra i due combustibili- sia per motivi di prezzo, prestazioni della macchina o anche a causa di motivazioni ambientali- è divenuto molto comune tra i brasiliani.
L'aumento, poi, del prezzo del petrolio nel mercato mondiale portò a considerare l'utilizzo dell'alcol come qualcosa di vantaggioso. Ovviamente, i prezzi cambiano a seconda della regione; pertanto, gli ingegneri sostengono che l'uso dell'alcol conviene ogni qualvolta il suo prezzo è inferiore al 70% rispetto a quello della benzina. In caso contrario, è meglio optare per la benzina, perché per percorrere la stessa distanza il consumo di alcol è maggiore in quanto possiede un minor potere calorico per far funzionare il motore.
Il lancio dell'auto "flex" è stato possibile perché è stato accompagnato da un cambiamento nella politica di pagamento delle imposte. Le pressioni dei rappresentati dell'industria automobilistica hanno convinto il governo federale a concedere vantaggi fiscali per il modello ad alcol. Questo è stato il modo per stimolare i fabbricanti di automobili e dei sistemi di motori ad investire nello sviluppo di quella tecnologia.
Dalla presentazione della prima macchina "flex" nel 2003, le vendite di questo tipo di veicoli, nel mercato brasiliano, sono andate gradualmente crescendo.
Le abbondanti risorse naturali del Brasile, combinate alla sua estensione geografica, hanno sempre motivato i policy makers ad aspirare per il Brasile una posizione di rilievo nei rapporti internazionali, in particolar modo, nell'ambito del continente sudamericano.
Lula è consapevole delle potenzialità del Paese ed è determinato a perseguire una posizione di leadership continentale.
Per tale motivo, agisce su diversi fronti: aumenta la sua presenza a livello regionale e cerca di conquistare maggiori spazi nelle istituzioni multilaterali ed in meno di sette anni è riuscito ad aggiudicarsi un ruolo importante sulla scena internazionale e ciò non era mai avvenuto prima d'ora a nessun altro Paese sudamericano.
E' riuscito a candidare il Brasile per un seggio permanente in seno al Consiglio di Sicurezza dell'Onu di cui, già è membro a rotazione.
Lula non è rieleggibile e molti hanno pronosticato che come suo successore ci potrebbe essere una donna, l'attuale ministro della Casa Civile, nonché suo braccio destra, Vana Dilma Rousseff.
Il Paese sta emergendo sempre più velocemente grazie alle abilità diplomatiche, politiche ed economiche delle persone che lo dirigono raggiungendo livelli di sviluppo molto simili a quelli dei paesi che si trovano nel novero delle aree sviluppate, ormai da tempo.
Tanti sono gli elementi che contraddistinguono il suo modello di sviluppo e tanti sono gli impegni affrontati per la sua realizzazione.
Rimane da augurarsi un mantenimento su questa linea per i prossimi anni, ma anche un'inclinazione sempre maggiore all'attenzione ai propri vicini, soprattutto quelli con più difficoltà, perché possano uscire presto da condizioni di sottosviluppo e di povertà attraverso interventi attenti e coordinati dei Paesi più ricchi e delle principali istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario internazionale ed il Wto ai quali viene imputata la principale responsabilità dell'inefficacia delle politiche in atto contro la povertà e le disuguaglianze internazionali.