Religione e Democrazia


Roberto Galisi

Cristianesimo e Sviluppo nella storia degli Stati Uniti

 

Il ritorno senza precedenti del fattore religioso e del sacro che si è verificato su scala mondiale in occasione della morte del papa Giovanni Paolo II, come in precedenti di gran lunga minori occasioni, quale ad esempio la rielezione di Gorge W. Bush, suggeriscono una nuova riflessione sulla storia del rapporto tra politica, economia e religione.

Tale riflessione, com'è noto, era stata già iniziata da Paolo VI nell'enciclica Populorum Progressio del 1967 e continuata fino ai giorni nostri da Giovanni Paolo II, attraverso soprattutto due encicliche cioè la Centesimus Annus e Ecclesia in America, mentre sul piano storico l'opera di Samuel Hunitngton,  La nuova America, sottolinea l'influenza del fattore protestantesimo sullo sviluppo economico politico e sociale  degli Stati Uniti e riafferma con forza la caratteristica di questi di essere la nazione più cristiana dell'Occidente.

Ugualmente interessante l'analisi fatta da Sergio Fabbrini, docente a Trento e a Berkley nel volume di recente pubblicazione[1], ultimo di una copiosa serie di libri che riguardano l'America, ma unico a dedicare alcune pagine sull'argomento della tradizione politica cattolica. In esse l'autore riprende le tesi di Huntington per le quali tutte le religioni si sarebbero progressivamente adattate al contesto culturale protestante accettando la base creata da Jefferson di ambiti radicalmente distinti, vale a dire la Chiesa e lo Stato, a differenza, egli osserva, di quanto avvenuto in Italia che si è trovata in una situazione radicalmente opposta. Da ciò sarebbe derivato un antiamericanismo cattolico, che ha seminato in profondità nel nostro paese soprattutto tra i militanti impegnati nel mondo del volontariato, del pacifismo, della cooperazione internazionale "per i quali l'America ha continuato e continua a coincidere con la civiltà del consumo e dell'impero delle armi", mentre la fine dell'unità politica dei cattolici non si sarebbe ancora tradotta in un loro contributo originale in modo che "anche per quanto riguarda l'interpretazione dell'America i politici e gli intellettuali cattolici hanno finito per fare propria le visioni dominanti all'interno dei due rispettivi schieramenti", ostacolo questo rilevante per una interpretazione adeguata dell'America: "dal punto di vista dei più poveri -osserva sempre Fabbrini- l'America è un paese opulento e militarista, ingiusto al suo interno e prepotente al suo esterno".

La visione pragmatica del cattolicesimo italiano non consente di vedere le virtù dell'America , ma soltanto i suoi vizi. La conclusione è che l'America continua ad essere fraintesa e misconosciuta. In tale contesto la visione dell'ultimo pontefice andrebbe approfondita perché in grado di dare un contributo realistico nel quale non si condanna il mercato e il capitalismo, ma se ne indicano le opportune e le urgenti correzioni alla luce della dottrina e tradizione cattolica. Occorre forse ricordare che la politica dei cattolici americani sin dall'inizio è stata improntata a una esaltazione della democrazia in misura non certa inferiore a quella dei protestanti come si deduce anche da Alexis De Tocqueville, il quale addirittura scrive che fra le varie confessioni cristiane il cattolicesimo era una delle più favorevoli all'eguaglianza delle condizioni: "se il cattolicesimo -scrive infatti Tocqueville- non di meno li prepara all'eguaglianza direi il contrario per il protestantesimo che generalmente conduce gli uomini meno verso l'eguaglianza che l'indipendenza"[2]. Concludendo che "quando i preti si mettono essi stessi fuori dal governo, come negli Stati Uniti, non vi sono uomini che siano più disposti dei cattolici a portare nel mondo politico l'eguaglianza delle condizioni".

Nella Centesimus Annus (1991) il ragionamento è in linea con quanto la Chiesa ha sempre sostenuto. Il monito iniziale è per quanti "in nome del realismo politico, vogliono bandire dall'arena politica il diritto e la morale". La crisi del marxismo non elimina l'impegno a indirizzare le risorse del mondo verso una crescita economica, traendole dallo smantellamento degli enormi apparati militari, sulla base della convinzione che "l'elevazione dei poveri è una grande occasione per la crescita morale, culturale e anche economica dell'intera umanità", essendo di fatto la grande maggioranza degli uomini "se non proprio sfruttati ampiamente emarginati e lo sviluppo economico si svolge, per cosi dire, sopra la loro testa". Infatti "le carenze umane del capitalismo, con il conseguente dominio delle cose sugli uomini, sono tutt'altro che scomparse; anzi, per i poveri alla mancanza di beni materiali si è aggiunta quella del sapere e della conoscenza che impedisce loro di uscire dallo stato di umiliante subordinazione".

Capitalismo dunque vincente? Se con capitalismo si riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata, allora sì. "Ma se con capitalismo si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell'economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la considera come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa". "La Chiesa non ha un modello da proporre"[3] perché esso deve "nascere nel quadro delle diverse situazioni storiche", ma indica i punti irrinunciabili di un programma che sono il rispetto dell'ambiente ecologico ed umano, la lotta ai falsi miti del consumismo e del progresso solo tecnico, una ideologia infine liberistica senza freni e senza regole.

 



[1] Cfr. S. Fabbrini, L'America e i suoi critici. Virtù e vizi dell'iperpotenza democratica, Mulino, 2005

[2] Cfr. A. De Tocqueville, La democrazia in America, Bur Rizzoli 2012

[3] Cfr. F. Felice, L'economia sociale di mercato, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2008

 


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