Storia


Claudia Pingaro

Eroine marginali nella storia: donne Valdesi tra storia e storiografia

 

 

La storiografia valdese, in sintonia con i principi della propria fede, ha da sempre dato voce - in forme e modi diversi, con differenti gradualità - alle figure femminili che hanno accompagnato e hanno caratterizzato il cammino religioso e la storia di un "popolo" molto spesso contenuta tra silenzi e incertezze interpretative.

In realtà la donna nelle comunità valdesi, sin dalle origini, ha svolto una funzione fondamentale e concreta, sebbene la stessa storiografia generata da quel mondo le assegnasse, sovente, un ruolo marginale nella propria storia. Già Valdesio di Lione aveva concesso alle donne la possibilità di predicare, di amministrare l'eucarestia, di essere, dunque, parte attiva all'interno della comunità religiosa e, fatto considerevole, permetteva loro di avvicinarsi ai testi sacri definendo, in tal modo, un'innovativa dimensione culturale e religiosa in cui le donne assurgevano ad un ruolo definito. Quando poi, nella seconda metà del XIII secolo, la Chiesa di Roma sferrò un vigoroso attacco persecutorio contro le comunità valdesi, all'interno di quei piccoli universi le donne si impegnarono ad assolvere funzioni più discrete e riservate gestendo, ad esempio, la rete degli ospizi disseminati in Europa e condividendo la dimensione comunitaria di un movimento alieno da ogni forma di violenza. Gli inquisitori e, in generale, il popolo definivano quelle donne (mediante un codice lessicale chiaramente declinato a metà strada tra il disprezzo e il timore al fine di preservare il consolidato senso comune di fronte a comportamenti inconsueti, ricusati dalla coscienza collettiva perché devianti) mulieres valdenses ovvero bonae mulieres se non addirittura - riferendosi alle predicatrici itineranti - donnicciuole (mulierculae), cariche di peccati (oneratae peccatis).

All'interno delle comunità le donne predicatrici venivano definite sorores, appellativo che richiama una sorta di parità di rapporti tra i membri di sesso diverso nella medesima collettività. Se nel linguaggio corrente si era soliti definirle donnicciuole, oneratae peccatis, è lecito supporre che le donne valdesi tra XII e XIII secolo non fossero solite concedersi alla dissolutezza o alla depravazione, ma tale era l'immagine esemplare che intendeva ad ogni costo lacerare il tradizionale silenzio programmatico sulle donne: un tempo storico in cui delle donne non si doveva parlare così come ad esse era richiesto il conciliante silenzio durante le pubbliche assemblee.

La storiografia del secolo XX riguardo alla vicenda valdese (sulla scorta delle ricerche già condotte a partire dagli studi del secondo ‘800) ha considerato le origini e gli sviluppi del valdismo improntando gli studi al rigore critico e alla ricerca di nuove fonti[1]. I risultati a cui è pervenuta l'indagine storica, soprattutto nel corso degli ultimi anni del ‘900, hanno ricomposto le motivazioni confessionali e le lacune storiche caratteristiche della primissima storiografia valdese ed ereditate dagli storici valdesi del secolo XIX. Le nuove indagini hanno, dunque, compiuto - se così possiamo esprimerci - un salto di qualità nella direzione di un riconoscimento e di un'identificazione della storia dei Valdesi tra il tramonto del Medioevo e i primi tempi della modernità, inserendone la complessa vicenda nel più ampio corso di riferimento temporale della storia d'Europa. La storia dei Valdesi, inoltre, considerata nel suo passaggio epocale di transizione dal Medioevo alla modernità (compresa la vicenda delle comunità stanziatesi nel Mezzogiorno d'Italia tra XIII e XIV secolo) mostra l'inesorabile destino di un intero "popolo" che passa progressivamente dall'originario modello di vita religiosa fino a giungere a confrontarsi con la Riforma di matrice elvetico-strasburghese a Chanforan, nella valle d'Angrogna, nel 1532. I predicatori itineranti - che a partire da ‘400 erano stati chiamati "barba" - mantennero viva presso le comunità valdesi una specifica pratica cultuale fino al secondo Medioevo. L'adesione del valdismo al modello riformato, a cui si è già fatto riferimento, determinò una serie di trasformazioni all'interno delle comunità presenti sul territorio della Penisola soprattutto per quel che riguardò il passaggio da una condizione di vita clandestina a comunità via via organizzate ecclesiasticamente secondo il modello di lezione calvinista. Le strategie adottate dai "barba" e dai pastori riformati all'interno delle comunità valdesi tesero a modificare le forme di vita religiosa consolidate e - dal momento che nel contesto specifico delle comunità valdesi alpine ciò era già accaduto fin dalla prima metà del ‘500 - intesero coinvolgere altresì le comunità valdesi periferiche presenti nelle varie zone d'Italia. L'azione condotta dai "barba" e dai ministri riformati all'interno del mondo valdese periferico tra gli anni '50 e gli anni'60 del secolo XVI costituisce un elemento determinante in grado di definire i nuovi modelli di vita e di fede cristiana rispetto a quel credo originario che, fino al momento dell'adesione al modello riformato, aveva rappresentato la condotta di fede valdese.

Proprio quando il movimento valdese aderì alla Riforma nel 1532, non riconobbe più, tra l'altro, la figura delle sorores. Ciò, probabilmente, era dovuto al fatto che, pur essendo in disaccordo con la Chiesa cattolica e i suoi fondamenti teologici, per Lutero, Calvino e gli altri riformatori, la donna era sì stata creata da Dio e in grado di salvarsi grazie alla fede - pari all'uomo dal punto di vista spirituale, dunque - ma subordinata alla volontà maschile in ogni altro ambito. L'universo femminile, insomma, rappresentava anche nel mondo protestante, il "luogo" in cui si era materializzato il germe del peccato originale e l'espiazione della colpa primigenia si manifestava nella dipendenza e nella soggezione della donna rispetto all'autorità maschile in generale e all'autorità maritale nell'ambito dei rapporti famigliari.

     Nei resoconti di alcune opere, come quelle, ad esempio, di Gerolamo Miolo Historia breve e vera de gl'affari de i Valdesi delle Valli (1587), o quella di Jean Léger Histoire général des Eglises Evangéliques des Vallées de Piémont ou Vaudoises (1669), alla figura femminile è riservato un ruolo rilevante: l'immagine e la funzione della donna nelle comunità valdesi diviene, come ci documenta agli inizi del XX secolo Teofilo Gay, una presenza operosa nella costituzione di una memoria trasmessa e da trasmettere successivamente, in un momento della storia dei valdesi - in particolare gli anni in cui scrive il Miolo, per intenderci - in cui essi guardano alle proprie vicende passate per riscriverle e strutturarle in un articolato processo di ricostruzione del passato[2]. Sulla scia di tali considerazioni, Marina Benedetti[3] ha ritenuto opportuno focalizzare l'attenzione sulla centralità storiografica di un tema impostosi negli ultimi anni all'attenzione degli studi storici: l'incontro del valdismo alpino con la Riforma e il suo determinante nesso con la storia delle donne. L'interrogativo da porsi, pertanto, riguarda i modi e i tempi della pregnanza del ruolo femminile nella società valdese a partire, ad esempio, dalle stesse considerazioni svolte da Miolo. E' fuor di dubbio che - nonostante il rilievo riconosciuto all'attività femminile nelle comunità valdesi- sia Miolo sia Léger nei propri scritti non assegnavano alla donna un ruolo che le innalzasse ad attrici di primo piano della scena valdese: eppure la partecipazione femminile agli avvenimenti non è affatto isolata e passiva tantoché nel mondo di Miolo la presenza delle figure femminili, seppur celata, incide nelle scelte di vita religiosa e, soprattutto, la loro partecipazione individuale o collettiva alle vicende storiche valdesi, è sempre l'esito di una perseverante e coerente scelta religiosa. In fin dei conti, la descrizione e la rappresentazione del modello femminile non trova posto se non in una dimensione legata ad obiettivi di carattere apologetici tipici della pubblicistica confessionale. Miolo racconta il destino di Margherita Latoda di Meana (nei pressi di Susa, in Piemonte) che sul finire del Trecento venne impiccata perché colpevole di essere valdese. La condanna a morte per motivi religiosi rappresentava, così, per l'Autore il legame che univa il destino di uomini e donne di un tempo lontano al proprio presente storico.

     A ben vedere, il problema fondamentale per ricostruire la traccia che nel lungo periodo riconsegni un'immagine identificabile della presenza femminile nelle comunità valdesi entro un'ottica socio-religiosa, è rappresentato dall'immaginario comune che la storiografia valdese stessa ha contribuito a creare della koinè femminile all'interno della propria collettività. Se, come già accennato, il mondo valdese ha dato da sempre voce, in misura diversa, al proprio universo femminile, è pur vero, d'altro canto, che soltanto sul finire del XIX secolo e agli inizi del successivo la storiografia valdese ha acquisito piena consapevolezza della centralità del ruolo della donna nel proprio contesto storico-sociale. Proprio sul finire del XIX secolo, difatti, la responsabilità delle donne all'interno delle collettività valdesi, sia dal punto di vista educativo sia da quello spiccatamente teologico, divenne consistente e, per certi aspetti, insostituibile. Un folto gruppo di donne valdesi, infatti, in qualità di maestre e lettrici bibliche, dedicò gran parte della propria vita all'insegnamento e alla predicazione. Marina Cacchi[4], per citare qualche esempio, ci informa dell'impegno di educatrice e di evangelizzatrice di Giuseppina Pusterla, attiva protagonista nell'atmosfera effervescente e teologicamente dinamica che, come accennato, caratterizzò gli ultimi decenni dell'Ottocento. A partire dagli anni '60 del secolo XIX il neonato Comitato di Evangelizzazione aveva, tra l'altro, il compito di coordinare e condurre le scuole gestite da maestre e maestri valdesi. All'interno di questa riorganizzazione dei compiti affidati agli educatori nella fede e nell'istruzione, la funzione determinante svolta dalle donne che si assunsero l'onere di insegnare, si rivela in tutto il proprio valore storico e socio-pedagogico, svelando il fascino discreto di queste protagoniste - tra cui Giuseppina Pusterla - instancabili proclamatrici della parola di Dio, educatrici esemplari, eroine di piccoli mondi in cui assolsero compiti tutt'altro che marginali, ispirate da un rinnovato spirito proselitistico, sebbene distante dalla libera predicazione itinerante del valdismo delle origini.

Dal canto suo, Teofilo Gay scrivendo nel 1908 delle Eroine Valdesi nel corso della storia, da Katharina Henzlin (1340), Margherita Latoda (1394), Françoise De Foix (1534), Maddalena Aurelli (1561) a Susanna Cupini Ranieri (1603), Lucrezia Gillio (1655) fino a Caterina Gianavello (1663) e Margherita Arnaud (1698), tanto per ricordarne alcune, riconosce alla presenza femminile la dovuta rilevanza all'interno del cosmo valdese in quanto eroine accanto ai martiri della fede.

La storiografia di genere nel secondo ‘900 riconsegnava alla conoscenza storica i tanti universi femminili fino a quel momento omessi e sottaciuti. Tuttavia, per voce valdese l'individuazione e la traslazione da oggetto a soggetto della storia della figura femminile aveva già trovato, nella storiografia confessionale, una prima espressione concreta. Pur privilegiando l'aspetto confessionale nell'interpretazione storica di un fenomeno quale quello del ruolo concreto della donna nelle comunità valdesi, il martire-donna descritto da Gay, ad esempio, rappresenta un'intrusione nella storia contemporanea e l'identificazione con il genere femminile è senz'altro ascrivibile ad un interesse storiografico proveniente dal mondo valdese.

     Studi recenti condotti sulla documentazione notarile tra medioevo ed età moderna, hanno fornito una serie di nuove formidabili informazioni circa le comunità valdesi in generale e il ruolo svolto all'interno di esse dalle figure femminili in particolare. L'esame degli atti notarili rogati in età moderna ha restituito alla conoscenza storica e storiografica figure di donne valdesi titolari di diritti reali e di vari altri rapporti patrimoniali, attive protagoniste di relazioni commerciali, destinatarie di lasciti ereditari. La fonte notarile databile alla prima metà del XVII secolo analizzata, ad esempio, in Calabria[5] - sede di consistenti comunità valdesi tra medioevo ed età moderna - ci informa in merito a vicende e circostanze prima d'ora oscure:

1) una sostanziale simmetria di condizioni tra i due sessi nella trasmissione ereditaria dei beni (le figlie femmine ereditano terre e case al pari dei figli maschi);

2) preferenza, al momento della divisione del patrimonio familiare, per il figlio più bisognoso indipendentemente da considerazioni legate al sesso, alla primogenitura o altro.

La peculiarità di questi atti riguardava, dunque, la sostanziale simmetria di condizioni tra i due sessi nel caso di trasmissione ereditaria: le figlie femmine ereditavano il patrimonio al pari dei figli maschi, contravvenendo a quanto stabilito dal diritto romano e consuetudinario. Queste recenti acquisizioni storiografiche aprono nuovi scenari sui comportamenti delle comunità valdesi, sul loro ruolo nella storia, sulla capacità di custodire la propria identità proteggendosi tra zone d'ombra e condotte nicodemitiche e - sulla scorta delle informazioni evinte dalla documentazione archivistica di cui si è detto - emendando anche le norme del diritto romano e consuetudinario in materia testamentaria fortemente penalizzanti per la donna in tutta l'età moderna.

Per di più, le nuove fonti sulle presenze valdesi nel Mezzogiorno d'Italia tra medioevo e prima età moderna esaminate da Alfonso Tortora[6] confermano il dato relativo al ruolo prioritario svolto dalle donne nelle comunità valdesi accanto, se non addirittura sovrastante, rispetto alle figure maschili. Tortora ci rende nota la vicenda riguardante un ricorso sottoscritto dagli ultramontani di Guardia (in Calabria) nel 1539 e inoltrato alla Regia Camera fiscale in cui si discute, tra le altre cose, di un territorio specifico in possesso di una donna valdese. Tale circostanza avvalora maggiormente le ipotesi circa il ruolo prioritario assegnato alle donne nel mondo valdese: un ruolo discreto, composto, ossequioso dei dettami religiosi, certamente marginale rispetto al protagonismo che la storia vuole maschile e che le regole del linguaggio volevano androcentrico - anche quello biblico, ecclesiastico e liturgico - ma un ruolo certamente decisivo e indispensabile. Conferma ciò il contenuto di uno dei documenti notarili esaminati da Alfonso Tortora: "Item in dicto castello e uno territorio nominato la zavertera che lo predicto conte [di Alife] lo have locato ad una donna per preczo de sei ducati lo anno che e finito lo tempo dela locatione facta ala dicta donna se degne epsa Maesta volerela locare et concedere con quillo medesmo pagamento, sta in potere dela dicta donna actento lo pocho terreno haveno. Placet Regie Maiestati que veris existentibus prenarratis finita la locatione predicata, dicti supplicantes succedant eidem mulieri in conductione dicti terreni eo modo et forma quibus eidem mulieri"[7]. Le circostanze esposte nel documento sono, senza dubbio, interessanti e, per quel che riguarda la parte relativa alla stipula di un contratto tra il conte di Alife e una donna valdese, rappresentano una fuoriuscita da qualunque schema istituzionale del tempo. La "locatione facta alla dicta donna" stabilisce un modello culturale atipico e si allontana dalla tradizione giurisprudenziale europea: il rapporto giuridico instauratosi tra il feudatario conte di Alife - a cui si rivolgono "li homini ultra montani habitanti al presente il lo castello dela guardia dela provincia de Calabria"[8] - e la donna citata documenta la volontà di quest'ultima di pattuire per la comunità, divenendo il soggetto attivo nell'ambito di un rapporto privatistico fino a quel momento dominio incontrastato della volontà maschile. Altro aspetto non meno importante che emerge dal documento di cui si sta dando conto riguarda il fatto che alla fine degli anni Trenta del secolo XVI le comunità valdesi stanziatesi da tempo nel Mezzogiorno d'Italia sollecitavano Carlo V a riconoscere e riconfermare le pattuizioni concesse precedentemente da Alfonso d'Aragona affinché agli accordi stipulati dalle comunità con la feudalità regnicola venisse riconosciuto il crisma della legalità. L'elemento interessante rispetto ai tempi e allo spazio geografico di cui si sta ragionando, è rappresentato dal ruolo svolto da una donna di fede valdese che stabiliva, in qualche modo, l'efficacia della legittimazione della funzione femminile entro un rapporto atipico rispetto alla tipicità contrattuale d'epoca moderna. Al tempo di Carlo V, dunque, le comunità valdesi nel Mezzogiorno d'Italia ancora sembravano deferire un'ampia sfera di potere contrattuale alla donna in quanto membro attivo di un mondo dinamico e precursore di tempi nuovi, indicando, pertanto, una precisa volontà politica indirizzata verso la costruzione di un'identità femminile portatrice di diritti e capace di disporre giuridicamente della propria volontà pattuendo accordi, contratti, decisioni con le rappresentanze del potere politico-istituzionale nei territori in cui erano stanziate le comunità valdesi. In effetti nel Mezzogiorno d'Italia, tra i secoli XV e XVI, le convenzioni contrattuali che disciplinavano i rapporti di diritto privato erano regolate dalla tradizione giurisprudenziale romanistica, longobarda e normanna: secondo le norme previste da queste statuizioni la dominanza maschile nei rapporti patrimoniali era indiscutibile. D'altro canto, come dimostrano le più attuali ricerche archivistiche relative alle comunità valdesi nel Sud d'Italia[9], il modello assunto da esse per regolare i rapporti patrimoniali di cui era indistintamente dominus l'uomo o la donna, derogava a tutta la tradizione giuridica costituitasi nel corso dei secoli, da quella romanistica a quella longobarda, alle regole imposte dal diritto moderno. Non era poco.

Grazie alle recenti acquisizioni archivistiche la storiografia sul valdismo si è arricchita di nuove conoscenze relative a quel mondo, ha tratto dall'ombra storie di donne all'interno del predominante universo maschile, ha identificato pratiche giuridiche che esulavano dai consueti rapporti stabiliti dalla tradizione e dal diritto consolidato fornendo un'immagine dinamica fuori dagli schemi stereotipati, pur tra le contraddizioni e i vincoli a cui le donne dovevano sottostare. La vicenda umana delle donne valdesi è, infatti, indiscutibilmente connessa al contesto storico e persecutorio vissuto dalle comunità nel corso del tempo. Il tema intriga e affascina, corre sul doppio binario di questioni confessionali e umane; racconta di donne prima di ogni altra cosa, fedeli al credo religioso in cui crebbero, alle comunità in cui alimentarono i propri progetti di salvezza, agli uomini ai quali affidarono la propria esistenza di donne e di madri. Con ogni probabilità non si tratta di una storia di genere ma di una storia del genere riformato che pur reclama una concreta individuazione e, quindi, una collocazione all'interno del vissuto umano per sfuggire al rischio dell'oblio.



[1] Cfr. A. Tortora, Nuove fonti sulle presenze valdesi nel Mezzogiorno d'Italia, in Valdesi nel Mediterraneo. Tra medioevo e prima età moderna, Convegno Internazionale di studi, Fisciano - Pagani, 4/5 dicembre 2008, a cura di A. Tortora, Roma, Carocci, 2009, pp. 45-78.

[2] A tal proposito si veda A. Tortora, Sulla storia moderna dei Valdesi del Piemonte, in Valdismo Mediterraneo. Tra centro e periferia: sulla storia moderna dei Valdesi di Calabria, ViVa Liber Edizioni, Nocera Inferiore, p. 35-68.

[3] M. BENEDETTI, La repressione delle parole: la predicazione delle donne valdesi, in Clio & Crimen, nº 1 (2004), pp. 167-188.

[4] M. CACCHI, Giuseppina Pusterla e l'evangelizzazione valdese di fine Ottocento, in Archivio per la storia delle donne, vol. II, D'Auria, Napoli 2005, pp. 101-125.

[5] R. CIACCIO, Famiglie e patrimoni dei calabro-valdesi, in A. TORTORA (a cura di), Valdesi nel Mediterraneo, cit., pp. 99-127.

[6] A. TORTORA, Nuove fonti sulle presenze valdesi nel Mezzogiorno d'Italia, cit., pp. 45-78.

[7] Ivi, p. 61. Fonte: Archivio di Stato di Napoli, Processi antichi, Pandetta corrente, b. 1645, c.n.n. Acta inter Excellentem Comitem seminarie et Universitatem et nomine terre guardie et Regium fiscum [...].

[8] Ivi.

[9] Cfr. R. Ciaccio, I Valdesi di Calabria e la feudalità: resistenza, coesistenza, fusione, in Valdismo Mediterraneo. Tra centro e periferia, cit., pp. 69-104. Ma si veda anche di A. Tortora la Prefazione al recente volume di D. Crea, Valdesi a Mormanno in Calabria Citra. Tracce provenzali ed occitaniche attraverso alcune testimonianze storico-linguistiche, Nocera Inferiore (SA), Viva Liber Editrice, 2013, pp. 13-23.