Storia
Alfonso Tortora
Su di un libro di Carlo Papini: Da vescovo di Roma a Sovrano del mondo[1]
Purtroppo oggi ci mancano gli scritti, abbondantissimi, che il bretone Louis Duchesne, storico della Chiesa antica, aveva accumulato nel corso della sua lunga vita, che si estese dal 1843 al 1922[2]. Peccato! Per suo stesso ordine tutto ciò che aveva annotato, scritto, abbozzato venne distrutto. Del perché di quella volontà testamentaria non abbiamo informazioni certe, ma possiamo supporne i motivi, se consideriamo che circa una decina di anni prima della sua morte, esattamente nel 1911, la sua opera maggiore, l'Histoire ancienne de l'Eglise[3], venne inserita nell'Indice dei libri proibiti. Dobbiamo ad Emile Poulat, fine conoscitore di quella crisi della coscienza religiosa, che per l'aspetto ecclesiastico viene a definirsi con il termine «modernismo»[4], l'informazione sulla cancellazione, su richiesta testamentaria, dell'archivio dello storico Bretone[5]. E non ci sembra un caso che questa informazione appaia in un'opera che il Poulat dedicava all'Histoire, dogme et critique dans la crise moderniste, apparsa in Parigi nel 1962[6] e proprio in concomitanza del Concilio Vaticano II (1962-1965), che, com'è noto, muoveva alcuni dei suoi passi anche sotto l'influenza del pensiero cattolico francese "umanista" e "personalista".
Non appaia fuori luogo il richiamo al Duchesne in apertura di questo discorso. La pertinenza tra il libro di cui qui discutiamo e gli scritti dello storico Bretone risiede nel fatto che l'Autore di questo volume si colloca ai miei occhi, in qualche misura, come l'erede storico di quel conflitto apertosi tra scienza e fede, tra ragione e storia, di cui proprio l'abate Duchesne fu, tra gli altri, mirabile protagonista. Certo, Duchesne rimase fedele alla Chiesa cattolica e quando gli si ordinò di genuflettersi dinnanzi al Tribunale romano dell'Indice lo storico della Chiesa antica lo fece e senza alcun indugio. Ma proprio l'evidente ossequio, il coerente rispetto mostrato verso la Chiesa cattolica da parte di Duchesne ci aiuta a comprendere meglio questo volume di Carlo Papini, questa sua specifica ricostruzione storico-critica della storia del Papato, che è poi la storia della Chiesa antica, dentro cui s'inscrive un «nucleo teologico molto soggettivo», per parafrasare il luterano Meyer. Si tratta, cioè, di un'interpretazione che Papini ha scelto, credo, sulla base di motivazioni essenzialmente confessionali, pur associandola, ovviamente, ad argomentazioni obiettivamente storiche.
Pertanto corre l'obbligo di precisare fin da subito che il volume del Papini ruota intorno ad una tesi di fondo: dimostrare su basi storico-critiche ogni mancanza di analogia tra i messaggi indirizzati da Gesù di Nazaret alla ekklesía, da intendersi soprattutto come la comunità messianica degli ultimi giorni in riferimento a Mt. 16: 16-18, con gli sviluppi di quella che sarà, poi, la Chiesa cattolico-romana. Per dimostrare questo assunto l'Autore, come arco cronologico della sua indagine, ha assunto il periodo che si estende tra la fine del II secolo d.C., e il VI Concilio ecumenico, vale a dire quello di Costantinopoli III, che si svolse tra il 680 e il 681 d. C. e su cui ci soffermeremo in seguito. L'intero libro, poi, si fonda su un complesso di citazioni estratte sia da Ireneo di Lione, Tertulliano, Cipriano, Eusebio ed altri (siamo quindi nell'alveo della Patristica), fino agli interpreti contemporanei della storia del Papato scelti, però, dalle differenti professioni di fede cattolica e protestante[7]. L'idea centrale sviluppata in questo libro, dunque, è che i pontefici romani tra i secoli II-III e VII si siano arrogati il titolo e la funzione di "veri vicarî di Cristo". Se non ho inteso male, il volume di Papini vuole essenzialmente rispondere ai seguenti interrogativi, che sono poi quelli posti dalla parte più cospicua dell'attuale protestantesimo all'odierno dibattito ecumenico[8]: esisteva nella Chiesa apostolica un ministero di unità (o primato) affidato a Pietro? Il Papa è realmente il «vicario di Gesù in terra»?
Alla prima domanda il volume del Papini risponde sul piano della critica storica. Egli vuole mostrare, mediante un discorso essenzialmente fondato sulla molteplicità delle interpretazioni storiche offerte da lunghissimo tempo sulle fonti relative alla prassi politica perseguita dai Vescovi di Roma, muovendo da Vittore I (189-199) in avanti, come esista una profonda contraddizione tra un Gesù storico[9] ed un papato storico[10]. Per essere più espliciti, Papini, in linea con ciò che Paolo Ricca scrive su questi temi, vuole documentare come siano stati proprio i pontefici romani che, a parte qualche rara eccezione, nell'insieme della loro storia, «hanno rappresentato Gesù meno di chiunque altro»[11]. In definitiva, Il primato del Vescovo di Roma si fonderebbe su una costruzione politica del potere. Per ripetere ciò che scriveva l'anglo-austriaco Walter Ullman in un fondamentale libro del 1961, per cogliere lo sviluppo storico del papato occorre porsi sul «cammino indicatoci dallo stesso papato». «Il tema espresso o implicito nelle migliaia di comunicazioni papali nel medioevo - continua Ulmann - è quello del primato della chiesa romana, concepito sia sotto l'aspetto dottrinale sia sotto quello giurisdizionale»[12]. Si tratta dell'affermazione della dottrina del primato romano, le cui radici affondavano nella teoria costituzionale romana dell'idea di principatus, ossia nella classica espressione della tesi discendente del governo e della legge. In definitiva, per volontà di Dio, mediante l'azione di Gesù, la somma di ogni potere era concentrata nelle mani del papa[13]. Questo principio basilare si fonda su Matt., 16: 18-19 e Papini ci ricorda il fondamentale documento, in cui si afferma «che la Santa Chiesa romana ha su tutte la precedenza non per virtù di una qualsiasi deliberazione di Sinodo, ma perché il primato le fu conferito dalla parola del nostro Signore e Salvatore»[14]. Si tratta di una raccolta di scritti, noti come Decretum Gelasianum, dal nome di Gelasio I (492-496), in cui furono inclusi tre testi che si volle risalenti a papa Damaso I (366-384) e relativi ad un "Concilio" sulla esposizione della fede che si svolse nella città di Roma nel 382, quasi coincidente con il Concilio di Costantinopoli del 381, dove ritroviamo nel terzo testo il richiamo ai versetti del Vangelo di Matteo su ricordati: "Tu sei Pietro e su questa base edificherò la mia chiesa". Il testo definitivo in cui è contenuta questa frase, come rileva Papini sulla base di opportuni richiami critici, è posteriore a papa Damaso I e sembra appartenere al secolo V o VI. Un'opportuna operazione di retrodatazione del documento e l'attribuzione a Damaso I, costituirebbero, perciò, specifiche operazioni rientranti nella logica dell'aggiustamento di quella realtà storica, che il Concilio di Costantinopoli del 381 aveva ben definito, attribuendo alla Chiesa romana un primato politico, ma non ancora apostolico. In definitiva, in questo modo la Chiesa di Roma si poneva in relazione all'importanza politica, più precisamente al rango politico assunto dalla città di Roma nella storia, così come accadeva per Bisanzio, più che sulla origine apostolica della sua fondazione.
Ho ricordato il libro scritto nel 1961 da Ulmann, all'epoca docente di storia ecclesiastica a Cambridge, tradotto in Italiano con il titolo Principi di governo e politica nel Medioevo, poiché non ne trovo traccia nel volume di Papini. Dico questo perché, credo, Papini non abbia tenuto molto conto dell'aspetto storico-politico del tema affrontato: cioè quello del modello di sviluppo del potere papale in relazione a ciò che Ulmann ha spiegato in termini decisamente storici, partendo da queste considerazioni.
«L'esegesi papale - scrive Ullmann - ha in tutti i tempi ritenuto che questo passo [quello di Matt. 16, 18-19] - unico - significasse due cose: prima, la fondazione della chiesa come corpo di tutti i fedeli, sacerdoti e laici insieme [Papini ci ricorda come con le decretali di papa Siricio (384-399) si ufficializzi l'intima e mistica unione personale di Pietro con il papa e per il tramite di quest'ultimo con il corpo dei fedeli, pp. 150 ss] e seconda l'istituzione del governo di questo corpo. Entrambi, quindi, il governo e il corpo sul quale tale governo avrebbe dovuto esercitarsi, venivano considerati istituiti con un unico e medesimo atto»[15].
Consideriamo più attentamente quanto ora detto, anche perché, credo, questo sia un punto nodale di questo libro. Prestiamo attenzione innanzitutto alla ekklesía basata sul mandato di Pietro. Essa rappresentava, secondo il costante pensiero papale, l'intera società di tutti i cristiani senza distinzione di sorta, tra Oriente e Occidente. Cioè la chiesa era concepita come un'istituzione creata per intervento divino (o così, da un certo punto in avanti, si volle determinare per volontà politica delle gerarchie ecclesiastiche, secondo la ricostruzione che ci offre Papini in questo volume), non risultante da un qualche istinto o impulso naturale, ma fatta sorgere da Gesù stesso. La chiesa incorporava il grande e l'umile, il patriarca e il villano, l'imperatore e lo schiavo, in breve chiunque fosse stato battezzato [Papini ci ricorda le teorie dell'asceta, monaco romano, Gioviano, pp. 157 ss.]. Il battesimo, poi, era considerato un atto eminentemente giuridico, per mezzo del quale e soltanto attraverso esso si diveniva membri della chiesa. Mediante il battesimo l'uomo diveniva giuridicamente parte dell'intero corpo cristiano [interessante, su questo punto ciò che Papini riporta intorno alle teorie di Teodoro di Mopsuestia, pp. 183-184, sull'unione personale del divino con l'uomo]. L'uomo e il cristiano costituiranno, allora, due concetti diversi. Il primo seguiva gli istinti, le sue inclinazioni naturali; il secondo, invece, era liberato dagl'istinti, in modo che le sue prospettive di vita erano ora guidate da postulati derivanti dalla partecipazione agli attributi divini ottenuti mediante il battesimo.
Per conseguenza il papato, in accordo con la dottrina e la letteratura apostolica, riteneva che le comunità dei fedeli dovessero vivere secondo una sola norma cristiana dettata dalla chiesa di Roma per effetto del primato di Pietro su tutte le altre sedi vescovili. È questo uno dei motivi di fondo, che Papini svolge tra i capitoli XI e XV, in cui si tratta anche dei Concili di Efeso, del 431, e di Calcedonia, del 451, fino a papa Onorio I (625-638), pur senza dimenticare il III Concilio di Costantinopoli, IV ecumenico, del 680-681 (cfr. pp. 348 ss.), attraverso cui Papini spiega il progressivo affermarsi del principio medievale della totalità o dell'indivisibilità della Chiesa cattolica romana. Si tratta di un principio molto importante, che ci aiuta a capire la base, su cui in particolare, funzionava il papato medievale. Insomma, nel corso dell'alto Medioevo la totalità dei cristiani era considerata formante il corpus Christi: cioè era un corpo che presentava tutte le caratteristiche di una corporazione romana ed al quale erano applicabili tutti i principi corporativi formulati nel diritto romano ed estesi dalla chiesa cattolica alle sue esigenze pratiche e spirituali. Era inoltre un corpo strettamente integrato, in cui ogni offesa, fatta ad uno dei suoi membri, tornava a detrimento dell'intera ekklesía. I soli elementi che tenevano insieme questo corpo erano la fede cristiana e l'aderenza alle norme da questa deducibili. Tuttavia, sebbene diretta verso una meta oltramondana, escatologicamente parlando, questa societas cristiana esisteva ed operava qui sulla terra. Certo, il principio della indivisibilità abbracciava la vita sia in questo che nell'altro mondo: quest'ultimo dipendeva, però, largamente dal primo. Il corpo cristiano era, dunque, duale: ossia esso era al tempo stesso terreno e ultraterreno e la vita su questa terra si poneva come preparazione per la vita futura.
Il professare siffatte concezioni poneva necessariamente in essere il problema dell'autorità ordinatrice. Gli elementi ordinatrici delle norme cristiane dovevano, allora, essere riconosciuti e compresi. Il problema dell'autorità ordinatrice si presentava perché la chiesa era concepita come un corpo strettamente integrato, organico, corporativo. L'esposizione e l'istituzione delle norme di condotta per il cristiano non potevano essere affrontate, secondo l'argomentazione papale, dall'inesperto, ma era compito che presupponeva una tradizione apostolica: cioè uno speciale mandato riveniente direttamente da Gesù.
Proprio perché questa chiesa era un'entità che esisteva su questa terra, dirigerla significava interessarsi delle azioni dei suoi membri. Il punto essenziale si collocava, dunque, all'origine della stessa Chiesa cristiana, ovvero nel punto centrale del cristianesimo. Centralità di direzione vuol dire sviluppo di un potere monarchico, ossia di una potestas assoluta. Monarchia significa anche governo; ma governo significava, nella concezione papale delle origini che la dottrina, vale a dire l'esposizione dottrinale di una norma o di un modello, si trasformava in una obbligatoria regola di azione di concentrazione delle leggi. La facoltà di trasformare la dottrina pura in legge di governo presupponeva il possesso della potestas. Siffatta potestas, secondo il papato, era stata data a san Pietro dalle parole di Gesù: "Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato in cielo [...]".
Un'ultima considerazione su questo volume riguarda l'importante funzione svolta da Costantino nel passaggio, che fu graduale e lungo nella storia del papato, del «Vescovo di Roma» a «sovrano del mondo» (cfr. pp. 79 ss). La lettura che Papini ne offre a riguardo, a partire dall'argomento della conversione di Costantino, che tuttora ci sembra tra le questioni più dibattute nella storiografia moderna a partire dagli studi del Grégoire risalenti al 1930[16], mi sembra ancora ruotare essenzialmente intorno all'inconsistente ottica di un dibattito storiografico tuttora ostinato a chiedersi chi Costantino sia stato realmente: quasi che il ruolo storico dell'Imperatore romano, vissuto in un'età di complesse transizioni, possa riassumersi nella sola azione di un uomo, sia pure il monarca del momento. Poco si dice in questo pur bel volume di Papini, ad esempio, di quel profondo, sottile strato della cultura religiosa che, al passaggio tra il III ed il IV secolo, appare retto da un processo di confluenza e di sincretismo di paganesimo e di cristianesimo. Si tratta di un importante aspetto della vicenda storica affrontata da Papini e di cui la normativa costantiniana pur contiene un'importante traccia, soprattutto in riferimento a quell'ambigua «conversion» di vecchio e di nuovo, che fu capace di coinvolgere gruppi dirigenti e masse anonime[17]. Segno di una tale operazione di incontro e di ritrovamento, da una parte, di convertiti filosofi al monoteismo, alla purezza, all'autocontrollo del corpo e dei comportamenti, cui progressivamente si aggiunse la non incomprensibilità delle nuove credenze e dall'altra, dell'adattamento dei cristiani all'interno dell'intero universo pagano, ci sembra sia offerta proprio dall'iconografia del tempo di Costantino su alcuni sepolcri data dal Cristo Maestro: abito professorale, gesto oratorio, le tre dita elevate, che poi si dissero benedicenti, si pongono come la definitiva associazione della figura vescovile alla cattedra del dux, ducis, di cui il Vescovo di Roma, incarnazione di un cristianesimo che comincia ad invadere il mondo dei colti, si pone come imprescindibile espressione di una dottrina che impartisce ordini, comandi ex cathedra. Il primato del Vescovo di Roma, dunque, sul piano storico passa anche attraverso il sorgere e l'affermarsi di un modello culturale, ancora oggi tutt'altro che spento, di una religione insegnata, di una religione di chierici, da un lato, docenti e, dall'altro, ubbidienti. Si legga, ma per citare un solo esempio, la costituzione costantiniana del 21 ottobre del 319, in cui si ritrova l'esenzione dei clerici dell'Italia meridionale da qualsiasi peso di uffici, di servizi e di prestazioni pubbliche[18]. Si tratta di un processo di diversificazione socio-culturale, di cui lo Stato del tempo si rende garante ed interprete normativo, ma anche promotore di una bipartizione nella originaria ekklesía tra lo strato superiore dei chierici e lo strato inferiore dei fedeli. È in questo sviluppo storico che i chierici acquistano uno status professionale privilegiato e garantito dalla legge. Ed è anche in funzione di questo processo storico che si coglie l'emergere di una figura interna all'organizzazione della Chiesa cattolica romana, la quale tendenzialmente avoca a sé ogni forma di riconoscibile primato, una sorta di monarchia del ministero[19]: colui che agli inizi del IV secolo d.C. già comincia ad indicarsi, nell'ordine gerarchico della ekklesía, con il termine greco «pápas».
[1] C. Papini, Da Vescovo di Roma a Sovrano del mondo. L'irresistibile ascesa del papa romano al potere assoluto. Frammenti di storia del papato. Dalle origini al secolo VII, Torino, Claudiana, 2009 [Studi storici. Saggi].
[2] Cfr. H. Leclerq, Historiens du Christianisme, in Dictionnaire d'archéologie chrétienne et liturgie, t. VI, 2, Paris, Letouzey & Ané, 1925, coll. 2680-2735; ma utili indicazioni su Duchesne si rinvengono anche in P. Tomea, Tradizione apostolica e coscienza cittadina a Milano nel Medioevo. La leggenda di san Barnaba, Milano, Vita e Pensiero, 1993, pp. 278-284.
[3] L'opera apparve, in tre volumi, tra il 1905 ed il 1910 in Paris, Albert Fontemoing Éditeur. Un IV volume, invece, con il titolo L'Église au VIe siècle, apparve posteriore alla morte del Duchesne in Paris, E. de Boccard, nel 1925, su cui cfr. l'interessante recensione che ne offriva Aigrain René, L. Duchesne, L'Eglise au VIe siècle, in «Revue d'histoire de l'Église de France», T. 14, n. 63, 1928. pp. 216-218.
[4] E. Poulat, «Modernisme», in Encyclopaedia Universalis, vol. XI, Encyclopaedia Universalis France, Paris, 1971, pp. 135-137.
[5] Cfr. l'«Introduzione» di G. Miccoli all'opera di L. Duchesne, I primi tempi dello Stato pontificio, Torino, Einaudi, 19672, p. XI.
[6] Nella collana «Religion et Sociétés» dell'Editore Casterman, su cui ci sembra ancora interessante leggere ciò che scriveva François-André Isambert, Poulat Emile, Histoire, dogme et critique dans la crise moderniste, in «Revue française de sociologie», 1963, vol. 4, n. 3, pp. 343-344.
[7] Si legga, su ciò, l'«Introduzione» di C. Papini, Da Vescovo di Roma a Sovrano del mondo, cit., pp. 9-19.
[8] Su cui, per limitarci a qualche rimando critico, cfr. B. Corsani, P. Ricca, Pietro e il papato nel dibattito ecumenico odierno, Torino, Claudiana, 1978; G. Miegge, C. Papini, Pietro a Roma, Torino, Claudiana, 2006; senza dimenticare le osservazioni, che pure si riconducono ad alcune delle questioni centrali affrontate da Miegge, da Ricca e dallo stesso Papini, avanzate tanto da H. Küng, Ein Jahr Johannes Paul II. Versuch einer Zwischenbilanz als Anfrage, in un articolo apparso sia in Frankfurter Allgemeine Zeitung vom 13. 10. 1979, sia in Tages-Anzeiger, Basler Zeitung, Der Bund, Vaterland. Schweizerische Tageszeitung, Basler Volksblatt, St. Galler Tagblatt, Bündner Zeitung vom 15. 10. 1979 e, in italiano, con il titolo Un anno di Giovanni Paolo II (1979), in Contro il tradimento del Concilio. Dove va la Chiesa cattolica?, a cura di H. Küng e N. Greinacher, trad. it., Torino, Claudiana, 1987, pp. 317-323, quanto da M. Florio, Il ministero petrino nel dibattito ecumenico contemporaneo, www.http://mondodomani.org/reportata/florio01.htm.
[9] Su cui, da ultimo v. G. Jossa, Gesù Messia? Un dilemma storico, Roma, Carocci, 2006.
[10] Sul punto cfr. l'agile, ma fruttuosa sintesi di C. Azzara, Il papato nel Medioevo, Bologna, il Mulino, 2006.
[11] Cfr. P. Ricca, Il papato come problema ecumenico, in B. Corsani, P. Ricca, Pietro e il papato nel dibattito ecumenico odierno, cit., p. 59; Id., Il primato petrino oggi: una prospettiva protestante, in «Firmana» n. 24 (2000), pp. 39-47.
[12] W. Ulmann, Principles of Government and Politics in the Middles Ages, London, Methuen y Company Limited, 1966 (1961), trad. it., Principi di governo e politica nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 29.
[13] Ibidem.
[14] Cfr. C. Papini, Da vescovo di Roma, cit., p. 146.
[15] W. Ulmann, Principi di governo e politica nel Medioevo, cit., p. 29.
[16] Cfr. H. Grégoire, La Conversion de Costantin, in «Revue de l'Université de Bruxelles», XXXVI (1930), pp. 231-272. Sul tema ed il relativo aggiornato dibattito storiografico cfr., ora, Di H. A. Drak, Constantine and the Bishops: The Politics of Intolerance, Baltimore, The Johns Hopkins Paperbacks edition, 2002.
[17] Cfr. H. A. Drak, Constantine and the Bishops, cit., pp. 192 ss., ma sono da leggere interamente i cap. II e III.
[18] Cfr. Th. Mommsen, Codex Theodosianus, I1, Berlin, Berolini, apud Weidmannos, 1905, 16, 2, 2, (Unveränderter Nachdruck Hildesheim, Weidmannos, 2011 [=1. Auflage Berlin 1904-05]).
[19] Si pensi alla III lettera di Giovanni - ha scritto Paolo Ricca - e «al «tipo di chiesa e di ministero auspicato da Diotrefe che già allora cercava "d'avere il primato" nella chiesa»: cfr. P. Ricca, Il papato come problema ecumenico, cit., p. 89, nota n. 51.