La questione ecologica e il declino dell’ambientalismo ideologico e fondamentalista

La questione ecologica e il declino dell’ambientalismo ideologico e fondamentalista di Vincenzo Pepe Sommario: 1 - Ambiente e ambientalismo; 2 - La questione ecologica; 3 – Il Tramonto dell’ideologia ambientalista; 4 – L’ambientalismo responsabile; 5 – L’Ambientalismo culturale. 1 - Ambiente e ambientalismo I tempi sono maturi affinché chi vorrà definirsi ambientalista, dovrà accogliere una rinnovata consapevolezza del valore di questa definizione e assumersi nuove responsabilità. Dovunque nei Paesi più avanzati, e per fortuna anche in Italia, il vento sembra cambiare. In tal senso le dichiarazioni di molti autorevoli esponenti politici, che sembrano aver definitivamente rottamato anche vecchie e inconcludenti ideologie, lo confermano. Non ci si sbaglia se si afferma che si sta diffondendo una sensibilità nuova in tema di ambiente; per chi come me si batte da sempre per un’idea diversa di ambientalismo è senza dubbio un riconoscimento per il lavoro svolto in anni in cui queste idee sono state minoritarie e osteggiate dai media e dalla politica. Scorgo nel nuovo vento che spira uno stimolo a proseguire sul percorso intrapreso nella consapevolezza di poter raggiungere grandi obiettivi, come quello di riuscire finalmente ad armonizzare sviluppo, crescita economica e valorizzazione ambientale. Ho sempre ritenuto indispensabile che cittadini, associazioni, politici, uomini e donne fossero consapevoli che l’Ambiente non è una questione che viene dopo le altre. Si sta finalmente comprendendo che tutto è ambiente, che le politiche economiche sono ambiente, che le politiche culturali e formative sono ambiente, che le riforme costituzionali sono ambiente. Abbiamo bisogno di capirlo sia per una doverosa necessità intellettuale, sia per l’urgenza di una svolta che ci conduca al modello – ormai prevalente dagli Stati Uniti alla Germania, dalla Gran Bretagna all’India, dal Brasile alla Svezia fino al Canada – di un “ambientalismo ragionevole” che mandi definitivamente in pensione quello a carattere ideologico nato negli anni Sessanta. Il vecchio modello di pensiero, frutto di un mondo e di una società che non esistono più, rappresentava una sorta di braccio armato pronto a scagliarsi contro l’idea stessa di progresso. In questa battaglia contro quell’idea sbagliata non mi sento più solo. Negli ultimi tempi numerose pubblicazioni sono apparse a sostegno di questa nuova e auspicabile tendenza che fa dell’ambientalista non un ribelle antimoderno, un profeta di sventura, ma un intellettuale e un attivista aperto alle novità, sostenitore delle nuove tecnologie, delle innovazioni della tecnica, propugnatore dei ritrovati della scienza e costantemente alla ricerca di soluzioni equilibrate e per questo sostenibili. Nella società contemporanea, alle prese con la globalizzazione e l’affermarsi di paradigmi sociali ed economici ancora da decifrare, è del tutto inutile trincerarsi dietro il muro dei no, nascondersi nella predizione delle sventure, rifiutare il progresso, relegare la giusta necessità di migliorare la qualità della vita a un egoistico bisogno “anti-natura”. Occorre invece uno spirito critico flessibile in grado di scegliere, caso per caso, quale possa essere la soluzione più adeguata e sostenibile da applicare, adattandola prudentemente alle molteplici realtà di cui l’Ambiente si compone. La nuova prospettiva ci suggerisce che è la nostra storia, quella degli uomini, delle donne, delle comunità locali a creare l’Ambiente inteso come correlazione fra i molteplici ambiti che costituiscono la vita. L’esito dell’interazione degli ambiti umani dà vita a sistemi complessi che non è possibile ridurre né confinare in significati “ambientalisti” che non tengano conto della complessità di quei sistemi all’origine delle società umane. Ciò che va bene per le comunità dell’entroterra del Mediterraneo, per esempio, non può automaticamente essere adeguato per tutte le popolazioni che vivono in qualsiasi altro entroterra del pianeta. Vanno considerati gli ambiti locali, le identità, le storie, i microclimi, le culture. Uno degli errori più gravi commessi utilizzando gli schemi oggi desueti dell’ambientalismo ideologico è stato quello di voler costringere l’innumerevole diversità della vita, degli ambiti umani, in concetti astratti e generici validi per tutti. Una commissione di burocrati saldamente ancorati alle comode sedie dei propri uffici in una qualsiasi delle metropoli mondiali non può stabilire gli standard di vita di una comunità africana o degli Inuit dell’Artico con un comunicato stampa . Ciò che devono fare, ciò che devono mangiare, come devono vivere, nessuno può saperlo meglio di chi quotidianamente da millenni vive quegli specifici ambiti. L’approccio ideologico in tema di ambiente, che purtroppo non è facile da smantellare, limita la comprensione stessa del nostro stare al mondo. Meglio rinnovarsi, allargare gli sguardi, discutere, sperimentare. L’Ambiente non è qualcosa di astratto e indefinito . Le questioni ambientali sono il risultato dell’interazione di tutto ciò che ci circonda. Di dinamiche che mutano e si evolvono incessantemente, di scontri, di separazioni o di legami. La natura, gli animali, gli eventi naturali, le catastrofi o i grandi rivolgimenti climatici che da sempre trasformano l’aspetto esteriore della nostra magnifica Terra, non costituiscono, da soli, l’ambiente. Ne sono una parte, come la famosa metà della mela del mito platonico. L’altra metà siamo noi. Siamo noi, uomini e donne, con la nostra inesauribile capacità di procedere, di andare alla ricerca del benessere. Questa metà è il frutto delle nostre molteplici attività delle quali non possiamo fare a meno. Così come non possiamo smettere di meravigliarci, di indagare, di valutare, di pensare che il futuro potrà essere differente dal presente. Semplicemente, non possiamo smettere di crescere per progredire sulla strada della qualità della vita. È il nostro imperativo categorico che deve trovare nell’equilibrio e nell’armonia il suo valore più importante al fine di governare con buon senso i processi del cambiamento. In ognuna delle scienze umane si afferma chiaramente che la vita è un meccanismo incredibilmente vario, delicato e proprio per questo non possiamo abdicare a essa. Le due metà della mela, natura e cultura, non vanno separate o messe l’una contro l’altra, ma stimolate da un armonico e dinamico equilibrio, messe in reciproca comunicazione . Il vecchio ambientalismo, ossia il modo sbagliato di essere sostenitori della qualità della vita, ha voluto e vorrebbe ancora che la nostra specie, “nemica della natura”, si fermi. Che si autocensuri al progresso. Che avvii la “decrescita”. Ma ciò è impossibile, oltre che illogico, perché è solo grazie al progresso che potremo salvaguardare anche l’ambiente naturale. Il cammino del genere umano ci ha condotti a non essere più in balia degli eventi ma a controllarli, a gestirli, a trarne beneficio. E noi oggi siamo in un punto privilegiato rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto, perché siamo consapevoli di questo percorso, ma siamo anche informati sul fatto che è giunto il momento di riequilibrare la relazione “umanità-naturalità”. Per farlo abbiamo a disposizione, e ne avremo sempre di più in futuro, le tecnologie, la ricerca, la conoscenza. Non possiamo smettere di produrre, di mangiare, di spostarci, di lavorare, in una parola, di vivere. Il nostro dovere non è quello di negarci agli ambiti dell’esistenza, ma di agire con modalità via via più ragionevoli, adottando modelli di equilibrata sostenibilità. Chi non lo capisce, commette un errore grossolano poiché non considera come la questione ambientale sia tale solo in riferimento al nostro Umanesimo. Siamo noi che riflettiamo, discutiamo, ci accapigliamo sulle formule economiche o quelle politiche da perseguire. Siamo noi che quotidianamente proponiamo ricette e slogan per cercare di scoprire se ci sono modi per vivere meglio. Siamo noi che, talvolta, perdiamo le coordinate, e siamo sempre noi che ritroviamo la strada e riprendiamo il cammino. È la nostra originalissima e splendida prerogativa di esseri umani che ci pone dinanzi alla questione ambientale. In fin dei conti, se ci pensiamo, è questa la nostra libertà . 2 - La questione ecologica Cerchiamo di capire cosa sia esattamente la questione ecologica. Secondo molti essa consiste esattamente nella messa in discussione del modello consumistico occidentale e dei valori su cui è stato costruito. Le problematiche ambientali che oggi si registrano non sarebbero altro che effetti dei modelli produttivi e degli stili di vita conseguenti a quei paradigmi. L’idea ovviamente non è del tutto errata, tuttavia se ci si ferma qui, così come ha fatto il vecchio ambientalismo che molti seguaci ha ancora oggi in Italia, non si può che rimanere intrappolati in una sorta di circolo vizioso secondo cui la nostra specie, nel tentativo di perseguire un progressivo benessere, inevitabilmente corroda e distrugga gli elementi e le condizioni “naturali” della vita sulla Terra. Di fatto, in questo orizzonte interpretativo, ci troviamo intrappolati in una contraddizione insanabile. Da una parte, operando attraverso quei meccanismi economici, tutti contribuiamo al miglioramento delle condizioni di vita, credendo di realizzare ciò che è bene per l’umanità; dall’altra, così facendo, ci rendiamo responsabili di un futuribile suicidio di massa a causa della manomissione degli equilibri e delle risorse naturali. È evidente che se scegliamo questa visione come l’unica possibile, i margini di azione si fanno per noi risicati, insignificanti. È per questo che è necessario cogliere l’esigenza di una nuova prospettiva ambientalista. La soluzione della crisi ecologica non può essere per se stessa “ecologica”. Deve riguardare una più ampia rimodulazione sociale, politica, culturale, in modo da coinvolgere centro e periferie delle nostre società. Per decenni si è ritenuto – lo hanno fatto gli ambientalisti dello scorso secolo – che la natura e i suoi ecosistemi non possano essere toccati, pena devastanti conseguenze: possiamo definire questo modello come il “paradigma della conservazione”. La natura soffrirebbe ogni nostra minima e singola intrusione, ecco perché bisognerebbe limitarci se non addirittura astenerci dagli interventi. Una visione miope che ha cominciato a scricchiolare quando la ricerca scientifica, la climatologia, la fisica, la biologia, l’etologia, le scienze economiche hanno dimostrato in modo inoppugnabile che gli equilibri naturali non si modificano solo per l’intervento dell’uomo, ma forse, e più spesso, mutano per elementi, connessioni e interrelazioni inserite nel gioco naturale, senza che noi ne siamo non solo responsabili, ma neppure consapevoli. Si è così compreso come le teorie che insistono sul divieto di alterare l’equilibrio naturale non solo non corrispondano alla verità dell’evoluzione dei cicli naturali stessi, ma siano del tutto irrealizzabili, poiché anche se noi ci astenessimo da qualsiasi intervento, lo farebbe comunque la natura riassestando, in termini forse più lunghi rispetto ai nostri, l’equilibrio dei molteplici ecosistemi. È questa caratteristica naturale che oggi conosciamo con il termine di resilienza, ossia la capacità di autoadattamento interno degli equilibri naturali. Che sono alla fine l’esito di processi di trasformazioni naturali fra loro correlati. Da ciò si capisce come il modello naturale della conservazione, tanto sbandierato dal vecchio ambientalismo, in pratica non esiste, è solo una costruzione teorica, o meglio ideologica . La conservazione, se con questo intendiamo lo sforzo volto a mantenere lo “stato attuale della natura”, si rivela di fatto un’operazione impraticabile, contraddittoria, inutile e in fin dei conti innaturale. Poiché la natura, infatti, si adatta e si autoevolve senza posa. Questa realtà ci guida verso quella rivoluzione copernicana da realizzare nella nostra idea di convivenza fra attività umane e cicli naturali. 3 – Il Tramonto dell’ideologia ambientalista C’è bisogno di uno sguardo nuovo per fare di un viaggio un nuovo viaggio. È esattamente quello che serve se si vuole rinnovare il pensiero ambientalista. C’è bisogno di uno sguardo libero da condizionamenti e dalle ideologie del passato che ci lasci liberi di conoscere e sperimentare il futuro. Mi vengono in mente Giordano Bruno e Galileo Galilei. I due grandi esponenti dell’Umanesimo e del pensiero moderno si incontrano nel Palazzo degli Eretici a Venezia, una specie di rifugio per spiriti liberi. Dinanzi alla magnificenza del Canal Grande e a quella vista di limpida bellezza i due parlano del mondo, dell’idea di universo, della Verità. Bruno è un visionario che lancia la mente oltre i confini umani. Galilei preferisce utilizzare il suo metodo, quello scientifico, della dimostrazione certa e indubitabile e degli esperimenti necessari per giungere alle verità della natura. Bruno non ha dubbi sull’infinità dell’universo e soprattutto sull’esistenza di molteplici centri, poiché nell’infinito non può esistere un solo centro. Anzi ogni punto di per sé diventa centro del tutto. Ossia ogni essere umano è centro di questo universo incommensurabile. In questo modo egli sa bene di rivoluzionare l’idea stessa di Dio, di spalancare gli occhi verso orizzonti di là da venire. Forse non si rendeva conto che la sua idea di infinito non era altro che un’anticipazione della moderna democrazia e dell’idea giuridica dei diritti umani, in cui ognuno di noi è un centro con una dignità unica e intaccabile e con una sua radicale specificità. L’origine della democrazia sta esattamente nell’idea di Giordano Bruno secondo la quale ciascuno di noi è un mondo, è un ambito costituito da molteplici elementi: è natura, è cultura, è identità. Sui canali di Venezia Bruno parla così dell’identità, di chi siamo. Egli sapeva bene che ognuno di noi è simile, ma allo stesso tempo diverso da quello di un mese prima o di un anno prima, che le persone sono uguali e differenti allo stesso tempo, perché la nostra diversità si chiama ambiente e si specifica nei luoghi in cui viviamo e che contribuiamo a modificare . Oggi, a più di quattro secoli da quell’incontro, sappiamo che l’ambiente che ci identifica è contaminazione di molti principi, ma anche adattamento. Che chiamiamo resilienza. Tutto è resilienza. Ognuno di noi si adatta all’ambiente in cui è immerso. E allo stesso modo la natura si adatta ai cambiamenti, anche a quelli generati dalle nostre azioni. Noi esseri umani siamo creature perfettamente resilienti e questo Giordano Bruno lo aveva già intuito. Siamo l’ambiente in cui nasciamo, il cibo che ingeriamo, l’aria che respiriamo, i panorami che quotidianamente guardiamo. L’origine la portiamo sempre dentro di noi. Un’identità che col tempo si mescola alle esperienze e ai condizionamenti. E così io sono l’esito del latte che ho bevuto da neonato, del mare Tirreno in cui mi sono bagnato da ragazzo, delle relazioni che ho instaurato e delle persone che ho incontrato nel corso della mia vita. Consapevolmente e inconsapevolmente la mia identità è l’ambiente da cui vengo, quello in cui vivo e quello che modifico con la mia presenza . Nei secoli scorsi parlare di natura voleva dire, spesso, fare riferimento alla cosiddetta “Età dell’oro”. La letteratura e l’arte figurativa sono piene di riferimenti alla mitica Età dell’oro. Ossia a quel tempo in cui l’uomo viveva in prosperità e abbondanza in perfetta armonia con la natura. Un tempo lontano, così distante da noi, che se ne sono persi i contorni. Tutti i filosofi e i pensatori si sono confrontati con questa idea che descriveva la nostra specie libera, non bisognosa di leggi, governi e re. Ogni primizia ci era offerta dalla madre Terra gratuitamente. Nessun uomo si dedicava al lavoro, la fatica era sconosciuta, così come la guerra e le malattie. Questo tempo magnifico e perfetto sarebbe terminato il giorno in cui l’uomo, preso da superbia e ambizione, ha smesso di accettare ciò che la natura gli dava gratuitamente decidendo di modificare la madre Terra con le sue invenzioni . Di questo mito dell’Età dell’oro si è impossessato, senza alcun diritto, il movimento ecologista. Quel pensiero nato dai movimenti di protesta sociale aveva individuato nell’Età dell’oro l’origine e il senso della propria battaglia contro il progresso e lo sviluppo, contro la tracotanza tecnologica della nostra specie. L’ecologismo aveva identificato nell’essere umano e nel suo legittimo bisogno di progredire, i più temibili nemici della natura. Un’idea che non ci ha impiegato molto a trasformarsi in un’ideologia, la più tenace e pervasiva della storia contemporanea. Basata su miti, false leggende, pregiudizi, terrorismo mediatico, ha finito per riprodurre un pensiero duro da scalfire che si è diffuso potentemente per decenni. L’ecologismo segnato da questa matrice ha finito per egemonizzare tout court il pensiero ambientalista, dovunque. È diventato così un’ideologia che si è radicalizzata, irrigidita, e come tutte le ideologie ha avuto i suoi profeti, i suoi leader che col tempo l’hanno utilizzata per carriere politiche a suon di propaganda. Non era possibile, né pensabile, alcuna deviazione dall’ortodossia Dall’ideologia al fanatismo il passaggio è stato rapido: quella visione del mondo diventa totalizzante, l’unica accettabile e condivisibile. La sola in grado di spiegare tutto. La genesi dell’ecologismo ci dice che essa è l’ultima e più potente ideologia che il Novecento, il secolo delle ideologie, ci ha consegnato. La questione ambientale fattasi ideologia ha preferito costruire verità di comodo, che calzassero perfettamente con la visione dogmatica di cui si faceva carico. Negli ultimi anni si è discusso sulla fine delle ideologie, sulla caduta dei muri, ma si è perso di vista che mentre le ideologie politiche crollavano, uscendo dal palcoscenico della storia, un altro pensiero totalizzante nasceva, diffondendosi con estrema rapidità, andando a colmare i vuoti lasciati dalle altre ideologie morenti. L’ideologia ecologista ha rifiutato l’Umanesimo, ha rigettato l’assoluta specificità che l’essere umano occupa nel mondo e ha posto la natura al centro di tutto, affermando che noi, uomini e donne, siamo solo ospiti dei sistemi naturali, figure secondarie, e che il progresso è intrinsecamente illegittimo. Questo modo di pensare ha dichiarato guerra all’antropocentrismo e alla civiltà umana, seppellendo secoli di storia, scienza e identità culturale. Oggi sappiamo che non è così. Perché se discutiamo di come salvaguardare la natura lo facciamo esattamente in virtù della nostra consapevolezza, della libertà di assumerci la responsabilità dell’azione, lo facciamo dalla prospettiva culturale di cui siamo portatori; solo grazie a essa potremo preservare la natura in quanto la nostra responsabilità è l’eredità più autentica e forte dell’Umanesimo. Rendersene conto senza peccare di quella che gli antichi greci chiamavano hybris, la superbia, è il primo passo da fare per liberarsi degli inutili e logori schemi dell’ideologia verde. Tra l’uomo e tutti gli altri viventi vi è una differenza qualitativa e non di grado: e cioè non siamo superiori, ma siamo certamente diversi. Lo siamo perché il nostro mondo, come sosteneva Giambattista Vico, è ambiente storico, culturale, civile, tecnologico e non solo ambiente naturale. Questo è il motivo per cui nei secoli abbiamo preso le distanze da molti fattori biologici o “semplicemente” naturali. Si tratta di un progresso tipico e inevitabile della nostra specie che non può essere demonizzato, né a causa di esso dobbiamo sentirci in colpa, nella convinzione che ognuno di noi rappresenta sempre un nuovo inizio. È arrivato perciò il momento di abbattere anche l’ultima ideologia giunta fino a noi, quella ecologista. Essa ci vorrebbe carnefici del creato e del mondo perché succubi e schiavi dello sviluppo, ossia dell’egoismo. Noi, donne e uomini, non siamo il virus nocivo che distrugge la vita e la natura, le nostre azioni non sono intrinsecamente sbagliate e dannose. Il nostro essere umani è il valore aggiunto per elaborare un pensiero efficace, adattabile ai bisogni concreti e in grado quotidianamente di dare soluzione ai problemi per vivere meglio. In armonia con la natura, in tutte le sue meravigliose forme e con le nostre identità, è possibile perciò realizzare una vita più degna per tutti, più libera e giusta nel rispetto di tutte le forme viventi del pianeta Terra. 4 – L’ambientalismo responsabile Anni fa ebbi la fortuna di incontrare e dialogare con il grande filosofo Hans-Georg Gadamer a cui chiesi, con molta ingenuità vista la mia inesperienza, cosa mai potesse essere l’ambiente. Avevo cominciato a occuparmi di questioni ambientali, ne avevo già sentiti molti di discorsi, ma desideravo avere un parere importante per provare a capire meglio. Alla mia domanda ho ancora oggi ben chiaro il silenzio che sembrò avvolgere il mio illustre interlocutore per qualche istante. D’improvviso con tono risolutorio ma affabile, Gadamer rispose: «L’ambiente è la libertà. E la libertà è la responsabilità». Fu quella per me la risposta. Le sue parole mi rallegrarono, fu come riuscire ad afferrare un meccanismo che mi svelava un mondo nuovo. Ripetendo fra me quelle parole pensai immediatamente a quanto mediocri risultassero la maggioranza delle “spiegazioni sull’ambiente”. La sua risposta parlava dell’ambiente come dello spazio consapevole della nostra libertà: libertà di progredire, di assumersi la responsabilità del futuro. Quelle parole che ho custodito con cura nel mio cuore suggeriscono oggi più che mai come sia proprio l’ambiente a valorizzare la nostra libertà e come l’ambiente sia la responsabilità dell’umanità. Essere responsabili, a mio avviso, vuol dire avere la ragionevole consapevolezza di agire alla ricerca della libertà. Di scegliere al meglio per quelle decisioni che ci riguardano come persone inserite in specifici ambiti, di determinare con equilibrio il corso delle cose . Ecco perché ambiente vuol dire oggi più che mai libertà, in netta antitesi al senso di paura e impotenza che sono invece la risposta del vecchio ambientalismo. Si tratta di quella libertà e di quel dovere che ci competono in quanto appartenenti al genere umano, che ci spingono tutti, nessuno escluso, verso una piena presa di responsabilità ad agire. L’ambientalismo non può più arroccarsi su posizioni oltranziste, ma deve calarsi nel fluire dell’esistente. Agire, fare, programmare, ideare, realizzare, verificare: verbi che sottolineano come il prendersi cura dell’ambiente passi attraverso la progettazione e la realizzazione di una convivenza sostenibile fra uno sviluppo armonico razionale, con le molteplici e mutevoli esigenze delle comunità umane. 5 – L’Ambientalismo culturale L’identità e l’autonomia delle popolazioni passano attraverso il principio dello sviluppo sostenibile che, emancipatosi da un idealismo ideologico e fondamentalista, rappresenta la capacità di coniugare la tutela delle risorse naturali con lo sviluppo economico e sociale di una comunità. Va pertanto difesa e diffusa una nuova concezione di ambientalismo, un pensiero che scelga di diventare antropocentrico, o come spesso sostengo, un “ambientalismo culturale”, in grado di porre gli esseri umani al centro dell’ecosistema globale responsabilizzandoli sia nel dovere di crescere e svilupparsi, sia nella difesa dei patrimoni naturali, al fine di garantire per sé e per le generazioni future una buona qualità delle condizioni di vita. Occorre in tal senso contrastare con le armi della ragionevole sostenibilità l’atteggiamento, predominante in passato ma ancora largamente diffuso, che ci induce a pensare che lo sviluppo e il moltiplicarsi delle attività umane siano, di per sé, il male, il nemico da combattere . Credere infatti che il naturale evolversi delle comunità umane, il cercare condizioni di vita migliori possano provocare la fine del nostro pianeta è illogico e inutile, dato che non è così che si risolveranno i problemi concreti del nostro pianeta. Abbandonare gli sterili conflitti ideologici è il primo passo. Lo dimostrano egregiamente i passi in avanti compiuti negli ultimi decenni in tema di qualità della vita. Se una parte consistente degli abitanti della Terra ha raggiunto elevati standard di vita, ciò è stato possibile grazie alle tecnologie, alla ricerca scientifica, all’innovazione e di conseguenza all’idea stessa di progresso che taluni vorrebbero cancellare o limitare. Capire questo vuol dire diventare finalmente consapevoli dei diritti e dei doveri che ci riguardano in materia di ambiente, ben sapendo che parliamo della nostra quotidianità. Per sostenere una simile prospettiva occorrono iniziative ad ampio raggio, quali l’introduzione dell’educazione ambientale come disciplina obbligatoria nelle scuole, primo passo per rafforzare nei cittadini di domani un’etica ambientale condivisa. Attuare progetti che possono far diventare l’ambiente il valore principale nello sviluppo economico delle comunità locali. Valorizzare le identità territoriali attraverso l’enogastronomia, le tradizioni locali, i dialetti, dare forza al paesaggio culturale e identitario che caratterizza qualsiasi ambito umano. Nella visione dell’ambientalismo ragionevole occorre proporre una sensibilità spiccata verso la tutela della salute dei cittadini, senza per questo demonizzare prodotti, strumenti, tecnologie che di giorno in giorno ci aiutano a vivere meglio. Decisivo sarà il nuovo ruolo che si vorrà conferire al comparto dell’agricoltura e della cura dei territori produttivi, incentivando il sorgere di cooperative e associazioni locali. Ciò determinerà non solo occasioni di nuova occupazione, ma anche un più consapevole governo del territorio utile per la prevenzione del rischio idrogeologico, degli incendi e del generale impoverimento delle terre. E ancora, bisognerà contrastare la desertificazione sociale che incombe su molte zone rurali del pianeta, in cui si assiste impotenti allo spopolamento e allo smarrimento delle identità, a vantaggio delle città e delle metropoli . Occorre riequilibrare questo rapporto. Altro tassello sono la mobilità sostenibile e i trasporti che giocheranno un ruolo essenziale nel futuro, ecco perché l’ambientalismo ragionevole non pone diktat e divieti nei confronti delle infrastrutture, delle grandi come delle piccole. Ponti, strade, metropolitane, ferrovie, dighe, così come la diffusione delle autostrade telematiche sono tutte opere indispensabili. La vera sfida sarà realizzarle con criteri di sostenibilità e utilità. Un altro ambito decisivo sarà quello dell’energia, della sostenibilità delle risorse e delle fonti energetiche. Avviandoci verso la fine dell’era dei combustibili fossili il pianeta avrà bisogno di dotarsi di una produzione energetica all’avanguardia. Pensiamo alle fonti rinnovabili, all’energia idroelettrica, alla geotermia, le cui potenzialità ancora ci sfuggono. Serviranno per questo politiche coordinate e sovranazionali di investimenti nella ricerca e nei progetti di sviluppo di tali fonti primarie, senza tralasciare che per realizzare tutto questo sarà opportuno progettare una sorta di decentramento della gestione energetica che si adegui alle differenze territoriali e paesaggistiche. La meta è la programmazione globale dell’energia realizzata però su scala locale, in modo che ogni singola comunità sia in grado di diventare autonoma e indipendente nella gestione dei flussi energetici di cui ha bisogno. Idee, piani, programmi, prospettive che annunciano quale sarà il livello di difficoltà nella sfida che ci attende per la scelta del nostro futuro. Bisognerà puntare su tutte le abilità di cui siamo capaci per rendere vincente una rinnovata cultura dello sviluppo e della cura dell’ambiente grazie a una prospettiva che comprenda integralmente buon senso, tradizioni locali, cultura e innovazioni tecnologiche. Questo perché il futuro sostenibile si costruisce non solo nella tutela ma anche nella crescita, nell’innovazione, nella ricerca delle soluzioni, nella valorizzazione delle molte realtà del pianeta e non nella paura e nell’immobilismo.