Vincenzo Pepe
sommario
1. Vita, pensiero e passione politica. La filosofia di Vincenzo Cuoco. -
2. Vincenzo Cuoco e il suo tempo. - 3. Popolo ed elites, Istruzione e religione. - 4. Storia, diritto, istituzioni. - 5. Il diritto: sintesi tra le classi sociali e l'amor di patria
1- Vita, pensiero e passione politica. La filosofia di Vincenzo Cuoco
Nato in Molise nella piccola comunità di Civitacampomarano nell'ottobre del 1770, l'adolescente Vincenzo Cuoco fu avviato dalla famiglia a Napoli perché vi continuasse gli studi per prepararsi alla carriera forense. Giunse nella città quando la grande età delle riforme inclinava già al tramonto. Frequentando il conterraneo Galanti sbocciò nel giovane la passione per lo studio della Ragione e l'amore per autori quali il Machiavelli e Giambattista Vico. Pur non avendo conseguito il titolo di procuratore, nel 1790 il Cuoco cominciò ad esercitare l'avvocatura, ma accanto alla pratica degli affari continuò a tenere viva la curiosità per gli studi avvicinandosi sempre più al grande filosofo napoletano. Del Vico almeno inizialmente non colse, probabilmente fraintese, gli aspetti gnoseologicamente innovatori concentrando l'attenzione sulla scoperta dell'insostituibilità del passato nel disegno dello sviluppo e sulla concezione di un ordine provvidenziale preesistente al mondo, di quella trama divina che sorregge "l'infinita varietà delle azioni e delle opinioni umane" (Scritti vari, II, p. 317)[1]. Accanto a tale suggestione l'altro tema che lo appassionò è la celebrazione della antichissima sapienza italica che egli concepì come uno spontaneo emergere di energie dal profondo dell'animo popolare; uno spunto che svilupperà tra il 1803 e il 1806 quando vorrà contrapporre all'egemonia francese il primato autoctono della nazione italica. Parallelamente fece suo l'ideale vichiano di una "monarchia perfettissima", di uno Stato retto energicamente da una minoranza di dotti e di forti, il modello, cioè, che ispirò a Napoli, negli ultimi decenni del Settecento, tanto la politica dei riformatori, quanto, dopo la svolta reazionaria della monarchia, i congiurati del 1794 e i rivoluzionari del 1799. Nel 1799 con l'ingresso dei Francesi a Napoli Cuoco si trovò ad "accogliere" per amore di patria, una rivoluzione e una repubblica su cui nutriva forti dubbi. Con il sopraggiungere dell'armata del cardinale Ruffo nel giugno del 1799 la sua abitazione venne saccheggiata, l'esercito del restaurato Ferdinando I lo arrestò e lo tenne nelle carceri napoletane per otto mesi fino a quando, grazie all'intercessione della famiglia, venne condannato a venti anni d'esilio e alla confisca dei beni. Scampato il pericolo della forca Cuoco dovette imbarcarsi il 5 maggio del 1800 per Marsiglia da dove si spostò nei mesi successivi prima a Parigi e poi a Milano. Nel capoluogo lombardo lavorando come oscuro magazziniere portò a termine il famoso Saggio Storico sulla Rivoluzione napoletana rinfrancato anche dalla proclamazione della Repubblica Cisalpina[2]. L'opera raccolse rapidamente i favori dei moderati e dell'ala liberale degli antigiacobini e seppe interpretare, in Francia come in Italia, l'affiorante opinione pubblica rassicurata dalle vittorie napoleoniche. Al centro dei cinquanta capitoli del Saggio, non è soltanto la rivoluzione di Napoli, ma anche "la storia della rivoluzione di tutti i popoli della terra e specialmente della Rivoluzione francese": questa "ha attaccato e rovesciato l'altare, il trono... i diritti e le proprietà delle famiglie". Egli ne riconosce la legittimità e, forse, la necessità come conclusione della lunga crisi dell'antico regime ma soprattutto individua già i caratteri della contraddittoria politica del Direttorio in Italia offrendo una dura critica della svolta radicale impressa dai Giacobini dopo il 1792. Con il regicidio di Luigi XVI per Cuoco termina ogni legame con la legalità della rivoluzione. Ma il fiero critico della Rivoluzione[3] era molto lontano dal dubitare della grandiosità dell'evento: paragonava i fatti di Francia a quelle catastrofi naturali che sconvolgendo la crosta terrestre rivelano l'interno assetto degli strati geologici e con l'eruzione di grezzi materiali determinano una nuova dinamica. Così la Rivoluzione, spazzando quel che era fatiscente nell'antico regime aveva aperto la prospettiva di nuovi equilibri politici e fatto irrompere nella storia le forze popolari: "il popolo è il grande, il solo agente della rivoluzione... ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che il popolo vuole e farlo, egli allora vi seguirà... arrestarsi tostoché il popolo più non vuole; egli allora vi abbandonerebbe" (cap. XVII). Questa è la tesi più nota del Saggio, la premessa del pensiero del Cuoco. Dall'esigenza di adeguare l'azione politica alla volontà degli strati popolari, egli ricava conclusioni profondamente diverse da quelle proposte dai conservatori e dai reazionari dei suoi tempi, dal Burke e dal de Maistre.[4] Egli infatti sa che la volontà popolare non è destinata a rimanere immobile sulla linea delle idee tradizionali, poiché l'esperienza insegna che le idee dei popoli possono mutare. Il Saggio affida alla classe dirigente il compito di promuoverne la trasformazione. Spetta al riformatore trarre "dal fondo della nazione" le idee e le esigenze che oscuramente fermentano nella coscienza popolare, chiarirle per mezzo dell'istruzione, inserire gradualmente le plebi nel corso progressivo della storia: "le prime idee che si devono far valere sono le idee di tutti, quindi le idee dei molti, in ultimo le idee dei pochi... Tutto si può fare: la difficoltà è solo nel modo; noi possiamo giungere col tempo a quelle idee alle quali sarebbe follia voler giungere oggi" (cap. XIX).
La fase biografica che segue la pubblicazione del Saggio è poco nota. L'opera aveva avuto successo, ma era stata pubblicata anonima, e il Cuoco continuava a "vivere alla giornata" lavorando in un "negozietto di stamperia". Nelle lettere che egli scrive in questo periodo si alternano parole di malinconia, propositi di suicidio, speranze di un imminente cambiamento dell'organizzazione di governo: erano i giorni dei Comizi di Lione in cui lo stesso Bonaparte sembrava volere accrescere la reale possibilità di dare forma concreta alla Repubblica Cisalpina. Eppure nelle stesse settimane Cuoco rifiuta la possibilità di tornare a Napoli: "che potrei fare nella patria? a che potrei occuparmi? a che travagliare? ... qui mi amano mi stimano personalmente, vedremo". Una spinta risolutiva era venuta dalle nuove prospettive aperte, dopo la proclamazione della Repubblica italiana, dalla vicepresidenza di Francesco Melzi d'Eril. Entro una forma democratica si delineava un nuovo modello di Stato illuminato e forte, ancorato alla borghesia attiva e al patriziato, capace di liquidare rapidamente le "teste calde" ma aperto ad un programma di riforme e ad una imprecisata prospettiva nazionale. Si poteva dunque realizzare così per il Cuoco quell'agognato obiettivo intellettuale e di programma politico di far convergere verso una strategia comune l'antigiacobinismo, il patriottismo, il riformismo. Nell'estate del 1802 l'adesione del Cuoco a quello che ormai si configura come il sistema napoleonico è convinta ed esplicita, coronata, nell'agosto 1803, dall'invito del Melzi a formulare il programma del Giornale italiano, destinato a diventare l'organo ufficiale della vicepresidenza della Repubblica. Progettò un giornale che spaziasse dall'economia alla sfera del costume fino alla politica. Il nuovo corso napoleonico rendeva finalmente praticabile la sua aspirazione a trasformare il problema politico in problema pedagogico; spettava agli intellettuali difendere e propagare le "idee medie" e quel che la situazione storica consentiva del progetto nazionale. Il foglio riservava la parte più consistente ai problemi dell'agricoltura, dei commerci, delle finanze ma il compito più alto consisteva nel formare lo "spirito pubblico", la coscienza nazionale. Guardando al di là dei confini della repubblica napoleonica, il Cuoco si proponeva il problema dell'"Italia una" [5], dei "destini futuri"; per l'immediato presente chiedeva la collaborazione di "tutti gli uomini di lettere" della penisola, sì che il giornale potesse far di Milano "la sede della mente universale della nazione" (Scritti vari, I, p. 8). Ciò sarebbe stato possibile utilizzando criticamente le memorie del passato ed aprendo largamente l'Italia alla cultura europea contemporanea. Era necessario misurarsi "almeno col pensiero" con le altre nazioni, che erano "più grandi" di quanto non fosse l'Italia. Ma questa apertura all'informazione internazionale ed al dibattito nasconde una segreta aspirazione nazionalistica e soprattutto il mai nascosto astio anti-francese, se per Francia si intendeva quella egemonizzata dal radicalismo giacobino. Dal settembre 1803 gli fu affidata la direzione principale e la principale responsabilità del Giornale italiano: lo stipendio di 350 lire mensili corrispostogli sui fondi del ministero degli Interni fece di lui un funzionario napoleonico, un attento interprete delle direttive del centro. Incarico ricoperto fino all'estate del 1806. Nel periodo milanese[6] l'attività intellettuale del Cuoco si spiega con grande forza e vivacità, ma, con la simultanea gestione di progetti si nota una certa tendenza dispersiva che caratterizza, in verità, costantemente la sua attività intellettuale. Sono gli anni in cui prende forma un'opera talvolta sottovalutata, ma certamente originale nella forma e nei contenuti e dai molti livelli di lettura come Platone in Italia. Riprendendo uno schema ispirato dalla letteratura didascalica settecentesca, il Cuoco immagina il viaggio che Platone e Cleobolo, personaggio immaginario e verosimilmente autobiografico, compiono nella Magna Grecia per conoscere gli uomini, le città, i costumi. Le vicende del viaggio costituiscono una cornice narrativa entro la quale egli raccoglie materiali eterogenei: rappresentazioni di luoghi, personaggi, stati d'animo diversi (dal ricordo dei lontani luoghi della giovinezza alla romantica descrizione delle rovine di antiche città, frammenti di storia delle antiche popolazioni italiche; abbozzi di filosofia; dissertazioni sulle istituzioni, leggi, costumi e arti dell'Italia preromana; miti, leggende, profezie. L'obiettivo è però politico. Egli attraverso la metafora letteraria intende rappresentare con commozione le sciagure civili dell'Italia contemporanea tra Rivoluzione ed Impero. I contemporanei intesero l'allegoria e lessero il Platone come un'opera politica e patriottica, accogliendola con un favore che è testimoniato dal succedersi delle edizioni nei primi decenni del secolo apprezzando soprattutto la celebrazione romantica e protonazionalistica dell'antichissimo primato italico.
Nell'estate del 1806 finalmente ritornò a Napoli[7] dove condusse il progetto di un foglio giornalistico, il Corriere di Napoli che uscì il 16 agosto per continuare con scadenza trisettimanale sino al 1811 quando si fuse col Monitore napoletano, prendendo il titolo di Monitore delle Sicilie, un quotidiano posto sotto la responsabilità del ministro di Polizia, ufficialmente diretto da Emanuele Taddei, ma realmente ispirato dal Cuoco che ne fu il vero direttore. Sino al 19 maggio 1815, immediata vigilia della restaurazione borbonica, egli collaborò al Corriere ed al Monitore con 147 articoli i cui temi mostrano quello stesso largo ventaglio di interessi che egli aveva già illustrato negli articoli del Giornale italiano. Nella sua seconda esperienza partenopea però l'impegno giornalistico passò in subordine rispetto a quello politico ed alle responsabilità amministrative: l'incontro con i Napoleonidi trasformò il giovane studioso molisano in un alto funzionario del Regno, in uno dei maggiori protagonisti delle riforme giuseppine e murattiane. Nel novembre 1806 venne nominato consigliere del Sacro Real Consiglio: dovette rimandare la presa di servizio, essendo ancora sprovvisto di laurea, ma la carica cominciò presto a fruttargli 3.000 ducati annui che gli consentirono "casa e carrozza". L'11 novembre 1807 fu nominato membro della Commissione feudale, una magistratura straordinaria che, dando applicazione ai principi fissati dalle leggi eversive della feudalità, doveva determinare il crollo dell'aristocrazia d'antico regime ed affermare il concetto moderno della proprietà. Il 4 settembre 1808 ebbe luogo tra Napoleone e il Cuoco un colloquio del quale si sa soltanto che ebbe in dono una tabacchiera d'oro "contornata di brillanti e fregiata della sigla imperiale". Come funzionario e intellettuale lavorò a programmi di rinnovamente dell'istruzione nei regni dell'Italia meridionale. Nel Rapporto e nei Decreti pubblicati ed emanati si specificano le teorie pedagogiche già affrontate con mezzi letterari nel Saggio e nel Platone. Entrato in contatto con la società meridionale il Cuoco pone tra le élites filosofiche e le plebi disorganiche, una fitta trama di intermediari: la piccola e media borghesia cittadina e rurale, tutti coloro la cui istruzione "ha per oggetto di facilitare le comunicazioni tra i pochi e i moltissimi". Questo sistema di mediazione fu pensato nella prospettiva di un ordinato e graduale progresso civile, ma non si può non osservare che una struttura dominata da intellettuali e proprietari poteva facilmente trasformarsi in quel blocco per l'organizzazione del consenso su posizioni conservatrici a cui doveva tendere il programma politico del Cuoco nei suoi anni della maturità. "È necessario - scrive - che vi sia una istruzione per tutti, una per molti, una per pochi.... La prima non deve formare del popolo tanti sapienti, ma deve istruirlo quel tanto che basta perché possa trarre profitto dai sapienti.... I grandi scienziati, sempre pochi, non possono essere a contatto con tutto il popolo... ad ottenere questo sono utilissimi i proprietari, i quali con l'istruzione e mezzi maggiori... sono più facilmente in contatto con gli scienziati e con i loro libri, e sono più efficaci a persuadere il popolo" (Scritti vari, II, p. 5). Il Rapporto sull'istruzione organizza la scuola in tre ordini (elementare, medio, sublime) e, consentendo l'insegnamento ai privati, riserva allo Stato una funzione d'intervento e di controllo che si esercita attraverso una direzione generale dipendente dal ministero degli Interni. L'istruzione non deve prendersi cura solo della scienza, ma anche della politica e della morale. Questa prescinde dalla religione, si fonda sul concetto di proprietà, sull'orgoglio nazionale, sulla "subordinazione, prima virtù d'ogni cittadino". Al dibattito sulla riorganizzazione dell'istruzione seguì un periodo nel quale il re di Napoli Gioacchino Murat gli affidò la direzione del Tesoro reale con l'arduo compito di riorganizzare il dissestato settore dell'amministrazione, un lavoro che il Cuoco condusse con intelligenza e zelo portando la Tesoreria napoletana dal caos in cui la trovò all'ordine e all'efficienza in cui la lasciò nel 1815. Tale gravosa incombenza gli rese impossibile "ogni occupazione letteraria". Quando, dopo la spedizione di Russia, i rapporti tra Gioacchino Murat e Napoleone si incrinarono, il progetto unitario nazionale che egli aveva sempre considerato parve possibile, caldeggiando allo stesso Murat la rottura con Napoleone e un accordo con gli Austro-inglesi[8].
Nei convulsi ultimi anni dell'esperienza murattiana Cuoco sembra da una parte restare fedele al re, dall'altra provare a guardare oltre. Fu chiamato ancora a proseguire l'opera di riassesto delle finanze ma dopo la fuga-esislio di Napoleone all'Elba suggerì al Murat di inserirsi ancora una volta nella crisi europea riprendendo la guida del movimento nazionale italiano. Progettò di impadronirsi militarmente della penisola per trattare da posizioni di forza col vincitore dello scontro continentale. La sfortunata impresa di Murat che catturato venne fucilato a Pizzo Calabro il 13 ottobre 1815, e con il definitivo ritorno dei Borboni a Napoli, Vincenzo Cuoco restò nell'amministrazione pubblica, al Tesoro, ma gli ultimi suoi anni furono segnati da grande amarezza. Alle sempre più frequenti manifestazioni della malattia nervosa che lo affliggeva, si aggiunse l'inquietudine per il suo ruolo di intellettuale non ricosciuto nello Stato borbonico. Le biografie sono ricche di aneddoti che rivelano come la malevolenza della corte nei suoi riguardi fosse unita ad un formale rispetto che giunse sino all'elargizione di nuovi titoli accademici e, quando la malattia gli impedì il servizio, alla concessione di una "mediocre pensione". Tra il 1817 e il 1821 il Cuoco dà manifesti segni di pazzia, alternando a sempre più rari momenti di lucidità improvvise accensioni di furore e crisi di depressione. Nel 1823 una caduta gli provocò la frattura del femore e, colpito da febbre e da cancrena, mori il 14 dicembre a Napoli nella casa dei marchesi De Attellis alla salita Tarsia. Il suo corpo fu sepolto nella cappella di S. Giuseppe de' nudi e in seguito, sopravvenuto il divieto di inumazione nelle chiese, fu gettato nell'ossario comune.
2 -Vincenzo Cuoco e il suo tempo
Il Settecento ha rappresentato per l'Italia, soprattutto nella sua seconda metà[9], quel risveglio culturale e intellettuale da tempo atteso. A causa di un periodo che gli storici sono soliti identificare con il cosiddetto "Lungo Seicento" nel quale la frammentazione politica, l'egemonia straniera e le ripetute crisi economiche avevano non solo emarginalizzato l'Italia dal nuovo contesto geopolitico europeo e mondiale ma definitivamente mortificato ogni velletià di unità nazionale, l'Illuminismo portò una ventata di novità intellettuale che si diffuse rapidamente. Da Milano a Napoli, passando per Firenze[10], nacquero e si moltiplicarono i salotti, i gabinetti, le società e le associazioni di liberi pensatori che forti delle novità culturali europee intesero diffonderle nei vari stati italiani e nei molteplici contesti socio-politici della Penisola. Proprio questa capacità di calare nelle varie realtà italiane le idee dell'Illuminismo è senza dubbio il maggiore merito di molti fra gli intellettuali italiani del Diciottesimo secolo e l'incontestabile valore aggiunto che essi seppero dare all'intero movimento illuministico europeo. Una felice congiuntura politica segna nei principali stati in cui era suddivisa la Penisola gli anni che vanno dal 1750 al 1785[11], in cui, anche a livello istituzionale, si assiste a una decisa svolta riformatrice che fa sue le istanze dello sviluppo sociale, economico e politico che in molti auspicavano. Sono anche gli anni nei quali sembra possibile un'unione di intenti tra strati differenti della popolazione. Dalle rivendicazioni sulla terra e dalle lotte antifeudali dei contadini alle spinte progressiste delle borghesie cittadine fino al risveglio illuminato di non poche aristocrazie, sembrò finalmente realizzabile un riformismo che sapesse addensare e convogliare anche le spinte più radicali, quelle della Rivoluzione francese in primo luogo.
Ingegno essenzialmente politico[12], Vincenzo Cuoco deriva dal Machiavelli e dal Vico, del quale, peraltro, approfondì le esigenze storicistiche più che non il significato ideale della speculazione, la capacità di sapere cogliere i fenomeni storici nel loro intersecarsi ad ambiti concreti, sociologici si sarebbe detto un secolo più tardi. Uno sguardo certamente originale che lo fa protagonista assoluto di eventi determinanti[13]. A supporto di questa tesi e sgombrando il campo da ogni possibile equivoco dogmatico-teoretico ebbe a dire nei Frammenti di lettere a Vincenzo Russo e soprattutto nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 che "nessuna rivoluzione può essere imposta né con la forza delle baionette, né ad opera di un'assemblea di filosofi", sostenendo invece che ogni popolo ha diritto ad una sua propria costituzione pienamente calata nella realtà e adeguata alla sua cultura e alla sua storia. Non a caso egli associa il tema della rivoluzione, paradigma finale del pensiero settecentesco, al tema della Costituzione, ovvero al punto d'arrivo della filosofia politica nata in seno all'Illuminismo. Egli aveva acutamente intuito che gli esiti nefasti dell'avventura napoleonica in Italia non fossero altro che le inevitabili conseguenze dell'eccessiva astrattezza di molti fra i discorsi dei rivoluzionari di matrice giacobina avendo per questo compreso quanto fosse arduo, oltre che ingenuo, trasportare ideali rivoluzionari d'Oltre Alpi nella nostra Penisola. Vincenzo Cuoco, sulla scia del Genovesi e dell'originale interpretazione della filosofia di Giambattista Vico, propone una sua rielaborazione del tutto peculiare che si attesta come una sorta di moderatismo conservatore e rivoluzionario allo stesso tempo. Per un verso il Cuoco, nella maturazione del suo pensiero che da filosofico si fa sempre più politico, si convince dell'anacronismo di forme monarchiche oramai autoreferenziali e impegnate soltanto a difendere rendite di poteri, ma dall'altro si pone come tenace nemico delle derive giacobine robesperriane e dei suoi frutti estremistici.[14] E' assurdo illudersi (e questo fu l'errore fatale di una parte consistente dei Rivoluzionari francesi) che vi siano metodi politici universalmente validi e universalmente applicabili a prescindere dalle particolari realtà storiche e sociali: tale è l'errore commesso dall'Illuminismo, che pecca di astrattezza nella misura in cui pretende di universalizzare e di assolutizzare ogni cosa. Ogni realtà ha le sue condizioni e le sue peculiarità ambientali; non è detto che, quanto risulta ottimo a Parigi, risulti tale anche a Napoli. Troviamo, pertanto, in Cuoco, un interesse assoluto verso le specificità culturali e i germi del nascente Romanticismo che in antitesi all'Illuminismo si prenderà cura di esaltare le identità e le tradizioni culturali dei territori. A proposito del fallimento della rivoluzione napoletana, egli annotava:
"Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto essere popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanissime da' sensi, e, quel ch'è piú, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt'i capricci e talora tutt'i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri capricci, dagli usi nostri... Se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi, se la costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un'autorità che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato dei beni reali, e liberato lo avesse da que' mali che soffriva... forse... chi sa?... noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria desolata e degna di una sorte migliore... La nostra rivoluzione, essendo una rivoluzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo. Ma le vedute de' patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi avevano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse". (Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799)
Sul piano piú strettamente filosofico[15] la reazione antilluministica, piuttosto che stimolare la creazione di nuove originali visioni del mondo, si trasformò, anzitutto, in esigenza di recupero della tradizione culturale italiana, con lo scopo pedagogico di formare le coscienze intorno ai valori costanti della civiltà italica. Furono poste ossia le basi per l'impegno politico degli intellettuali dell'Ottocento che si focalizzò sul disegno di liberazione dagli Austriaci e dunque sul progetto di costruzione di un unico stato italiano a dimensione nazionale. La riscoperta e la diffusione delle tradizioni storico-culturali era tesa a fondare una "coscienza della nazionalità italiana" che sola potesse essere il presupposto logico di quel progetto; infatti era giudizio diffuso che sussisteva di fatto, e da tempi antichi, un'unità spirituale che la divisione politica in una molteplicità di stati, anche se secolare, non aveva mai spezzato. Emerge così nelle sue riflessioni una prospettiva dinamica ad ampio raggio che si muove dalla politica all'antropologia fino alla pedagogia, e che modella il suo realismo conservatore facendo della sua maggiore opera, Il Saggio, lo specchio delle contraddizioni e della vivacità intellettuale che segue la discesa dei francesi in Italia. Una discesa-invasione su cui il Cuoco riflettè a lungo anche con giudizi talvolta in apparente contraddizione. Da catastrofe per le genti italiche egli sostenne altresì Napoleone come l'instauratore di "un nuovo ordine di cose", una posizione che appare invece coerente all'impianto generale del Saggio se si pensa alla funzione egemonica che in esso il Cuoco riserva alle élites. Dunque non una contraddizione intellettuale ma un'idea in armonia con l'ispirazione nazionale unitaria che sin dalle prime pagine anima l'opera, qualora si consideri che, col nuovo corso napoleonico, nella mente del Cuoco si accese la speranza di realizzare l'unità italiana come parte del "grande insieme" di nazioni e di popoli che trovava, in quella fase storica, nella Francia il suo centro[16].
Non di meno bisogna ricorda come Il Saggio, più che una storia, sia una meditazione sulla storia. La rivoluzione di Napoli è stata un movimento "passivo". Generata da un contraccolpo di eventi estrinseci non ha saputo inserirsi nei concreti bisogni del popolo e approfondire i motivi storici originali. Si è invece allontanata dalle genti nel nome di un'astratta politica universale, voltando le spalle alla concreta libertà e alla sola vera forza delle rivoluzioni, ovvero rifiutando il patriottismo che nasce nel popolo allorquando esso sente congiunti i suoi bisogni a quelli del suo ambiente di appartenenza. Ecco perhè l'opera è un duro atto d'accusa alla mentalità giacobina francese, che, concepita di pura ragione una forma perfetta di governo, credette possibile imporla a genti che già avevano una storia propria, uno sviluppo secolare autonomo, esigenze peculiari che andavano comprese e rispettate. Una originale sensibilità quella che anima la riflessione cuochiana e che si dispiega chiaramente nel profondo interesse che egli nutrì verso l'istruzione popolare e la stessa educazione femminile che lo ispirò nella progettazione di un nuovo ordinamento scolastico che comprendesse tre gradi: sublime, medio, elementare; un sistema nel quale il docente potesse esplicare in piena libertà il proprio compito specie nella formazione della coscienza infantile, senza soffocare l'autonomia del discente. Il sistema scolastico del Cuoco respinge ogni dogmatismo intellettualistico, fa appello alle vive potenze creative dello spirito, si richiama alle tradizioni dei luoghi e ci sorprende per la sua ricchezza e modernità. Purtroppo questo ambizioso programma non venne attuato se non in parte e per brevi periodi ma esso ci restituisce un intellettuale pienamente coinvolto nel suo ambiente e capace di una visione culturale asolutamente straordinaria, di un'acuta volontà di comprensione del presente tanto che al suo insegnamento si ispirarono intellettuali quali Mazzini e Gioberti. Ecco perché il contributo del Cuoco alla formazione della coscienza nazionale nel rapporto che essa deve intrattenere con le molte autonomie locali da salvaguardare resta, forse, il suo insegnamento più alto e la più straordinaria eredità.
3 -Popolo ed elites, istruzione e religione.
Nel Cuoco del Saggio troviamo sia l'idea vichiana, protoromantica, delle spontanee energie popolari creatrici della storia, sia la concezione ancora settecentesca di un processo storico diretto dall'alto, da elites illuminate e riformatrici. La sua preferenza sembra andare a favore delle classi dirigenti, alla loro adeguata formazione, perché se è vero che per "produrre rivoluzione" occorre il numero, è più vero che "sono importanti i conduttori i quali presentano al popolo quelle idee ch'egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da se stesso formarsi" (Saggio, cap. XV). Nel successivo svolgimento del suo pensiero la funzione delle élites, e con essa l'egemonia dei ceti medi, assumerà un rilievo preponderante. Appare per questo straordinaria la sua capacità di anticipare e approfondire il rapporto tra masse ed elites se pensiamo come tale relazione divenga effettivamente il nodo cruciale e ineludibile dell'intero Risorgimento italiano, come Antonio Gramsci seppe poi descrivere avendo cara la lezione del Cuoco. Per risolvere i problemi creati dall'azione popolare in una società in sviluppo, il filosofo molisano avanza proposte che, rimanendo aderenti alle esigenze della frammentata realtà italiana, aprono la strada al liberalismo moderato dell'Ottocento. Occorre sottolineare anche in questo caso la geniale critica rivolta al Giacobinismo già tramontante e per molti aspetti distruttore delle stesse riforme intraprese a causa di un radicalismo fine a se stesso. Il Cuoco sceglie, per uscire dall'impasse che le stesse idee rivoluzionarie sembravano avere generato, la prospettiva pedagogica che lo ispirerà negli anni della maturità, del suo impegno civile e culturale come funzionario dei regni napoleonici. La repubblica era caduta perché la rivoluzione aveva interrotto nel momento più delicato il processo di sviluppo della "nazione napolitana" iniziato con le riforme. La rivoluzione era fallita perché, portata da armi straniere, si volse solo ad affermare idee "non intese né curate dal popolo", incapace di interpretarne i bisogni la rivoluzione era rimasta "passiva". La distanza esistente tra "le idee de' patrioti" e le "idee della nazione" non era stata colmata. Anche quando i patrioti, per rompere l'isolamento, avevano tradotto nel dialetto i loro programmi, essi avevano continuato a parlare il linguaggio della ragione e dei diritti politici, incomprensibile al popolo. Chiusa in una concezione aristocratica della repubblica, la classe dirigente non aveva ignorato il popolo, ma lo aveva giudicato per allora inerte, scisso dalla nazione della quale si era considerata sola rappresentante. Da tali premesse aveva tratto la decisione, rivelatasi fatale, di "tutto riformare" senza tenere conto delle resistenze che incontrava dal basso. Così nel ‘99, con l'insurrezione sanfedista delle plebi, l'incomunicabilità tra i "due popoli" era giunta alla sua tensione massima e all'inevitabile drammatica conclusione. Qui lo sguardo "sociologico" del Cuoco segue quello filosofico che si concentra in particolare sulla critica "antimoderna vichiana" intesa come ipostatizzazione della potenza del soggetto[17] così come Cartesio il razionalismo e l'Illuminismo in genere avevano professato. Infatti Giambattista Vico aveva contrapposto a tali riferimenti una concezione storico-sociale incentrata sulla più concreta idea della finitezza e dell'incertezza come i caratteri ontologici specifici di ogni ente. È da questa visione che discenderebbe in Vico l'idea che "l'unica categoria del politico" sia la prudentia civilis, intesa quale «ricerca dell'equilibrio, valutazione del possibile e del fattibile, consapevolezza (...) della intrascendibile relatività e aleatorietà del fatto politico». Il Saggio del Cuoco riprende e sviluppa le intuizioni di Vico, aggiornandole alla luce della Rivoluzione francese e di quella partenopea. Ecco dunque che la riflessione si incentra sul concetto di rivoluzione passiva, espressione della scissione della minoranza rivoluzionaria dalle masse. Si delinea più chiaramente in tal modo la critica di Cuoco al razionalismo illuminista e alla prospettiva del giacobinismo radicale di Vincenzo Russo, che viene sviluppata alla luce di un progetto di "democratizzazione universale".
Del resto tale posizione è espressa compiutamente con il Platone in Italia, in cui una riflessione complessiva sulla "rifondazione della politica" porterà Cuoco a far coincidere pienamente la classe politica con la borghesia, segnando in questo modo un allontanamento chiaro da esiti popolari o populistici. Nel romanzo, dietro le allegorie e i simboli, Cuoco esalta il ruolo delle elites che "conoscono le vere cagioni dell'universo; ad esse spetta stabilire le leggi della città, trasferendo con una serie di sapienti aggiustamenti l'armonia delle leggi cosmiche nella realtà umana e storica. Nel basso è il "popolo" che "i saggi" non devono mettere a parte di tutta la loro dottrina: per il popolo conoscere le ragioni ultime è inutile perché non potrebbe farne quell'uso che ne fanno i savi, è però necessario che ne conosca una in cui la sua mente si acqueti" (Platone, II, p. 104). Emerge, come negli scritti del '99, la teoria dei "due popoli" e si ripropone il problema del rapporto tra élites e masse. Anche nel Platone tale questione trova soluzione sul piano pedagogico, ma viene meno quanto vi era di felicemente indeterminato negli accenni alla mediazione pedagogica che si leggono nel Saggio. Egli formula una vera e propria teoria dell'istruzione, nella quale però il popolo da soggetto storico, quale lo aveva proclamato nel Saggio, viene "ridotto" ad oggetto pedagogico, come lo rivela il Platone. L'istruzione non assume per i moderati "pitagorici" del Platone il significato di una esperienza liberatrice poiché si configura come un processo di graduale elevazione ma anche di sostanziale integrazione delle plebi entro l'ordine civile progettato dai saggi. Lo sviluppo delle energie popolari è affidato alle cure di una minoranza virtuosa, interprete dei potenziali valori che pur fermentano e si muovono negli strati profondi della società. Il processo tende nella sua prospettiva ultima, ma indefinitamente lontana, all'innalzamento delle plebi al piano delle élites, ma è diretto e dosato dall'alto: la prospettiva gradualistica, più che da un calcolo machiavellico, nasce dall'idea della continuità, sentita dal Cuoco come momento imprescindibile dei processi di trasformazione. Attraverso questa difficile opera le classi dirigenti potranno consolidare le basi dello Stato e integrarvi i ceti inferiori e nell'immediato garantire l'obbedienza alle leggi grazie alla pratica della virtù: "virtù è agire come i padri e gli antenati, virtù è seguire il costume tradizionale. Virtù è soprattutto amor del lavoro, agricoltura: "agricoltura e virtù non bastano esse sole a render felice un popolo?". I capitoli del secondo libro dedicati al Sannio, selvatica patria della virtù, presentano una comunità di piccoli proprietari e di coltivatori diretti che hanno trovato la "felicità" nel lavoro dei campi, nella frugalità, nella severa disciplina militare. Il Cuoco costruisce in questo modo un modello che nei decenni successivi la classe dirigente utilizzerà con la letteratura rusticale destinata ai ceti agricoli, mentre le catoniane virtù dei Sanniti prefigurano l'immagine dell'italiano nuovo che sarà alla base dell'ideologia nazionalpatriottica del Risorgimento.
Per quanto concerne l'ambito della religione egli aveva compreso con straordianrio acume la rilevanza dei fattori religiosi nella costruzione del legame sociale-politico e giuridico. La religione occupa un posto importante nella formazione dei popoli: essa rappresenta un valido strumento per l'educazione civile, educazione che deve avere carattere religioso. Nel fondamentale capitolo XXV del Saggio, là dove si occupa della religione, egli osserva: "oggi le idee de' popoli di Europa sono giunte a tale stato che non è possibile quasi una rivoluzione politica senza che strascini seco un'altra rivoluzione religiosa, doveché prima la rivoluzione religiosa produceva la politica (Saggio storico, capitolo XXV, pp. 380). Un'affermazione che anticipa Hegel nel chiarire che la religione cristiana si sa adeguare e conviene più delle altre alla democrazia, e più in generale alla sfera politica. Da dove deriva la forza politica del Cristianesimo? Dal fatto che tra tutte le grandi religioni solo quella cristiana sa stimolare la libertà dell'individuo, la sua consapevolezza, il senso di giustizia e il senso di appartenenza ad una comunità. L'europa moderna che Cuoco vedeva sorgere si fondava sul Cristianesimo e sull'importanza della pace religiosa, della diffusione nelle società di un equilibrio sociale basato sulla consapevole aderenza ai dettami teologici del Cristianesimo. Ammettendo l'esistenza di Dio bisogna considerare la morale come il nesso profondo che intercorre con la pratica religiosa; pur non condannando coloro che ritengono possibile la distinzione della morale dalla religione, il Cuoco è convinto che il popolo non può fare a meno della realtà religiosa, poiché è una dimensione intrinseca dello spirito dell'uomo. Per dare ragione della sua posizione, consolidando la sua battaglia contro ogni astrattismo. Egli non adduce motivazioni di natura ideologica. Non giudica possibile una morale fuori della religione: l'uomo di cultura trasforma in concetti ciò che per il popolo è percezione e creatività, ma di fronte al mistero si ferma. Se si elimina la religione, che è alla base di ogni diritto dell'uomo, dell'educazione e della morale, il popolo non si sente più giustificato a compiere l'atto di ubbidienza verso l'autorità e non coglie alcuna appartenenza identitaria. Per poter parlare al popolo, lo Stato deve rivolgerglisi nelle forme che sono a lui familiari e per ottenere ciò che desidera, pertanto, lo Stato dovrà ricorrere alla religione e al suo linguaggio. Ma obiettivo del Cuoco, a differenza del Machiavelli, non è quello di ridurre la religione a instrumentum regni: se lo Stato si dimostra neutrale in materia di fede, rimane senza una base e non è in grado di accostarsi al popolo che prende coscienza della morale proprio a partire dalla religione che ne rappresenta il fondamento. Tra Stato e religione, avverte il Cuoco, c'è sicuramente una precisa delimitazione di finalità, poiché il primo si pone un fine politico, mentre il secondo parte da questo per astrarsi, operando unicamente all'interno dell'uomo: mentre sul piano politico non c'è occasione di conflitto, sul terreno spirituale abbiamo identità d'oggetto, vale a dire il potenziamento del popolo nella sua parte interiore e la reciproca cooperazione. Il rischio di una conflittualità si rende presente quando, secondo il Cuoco, accordiamo caratteri di assolutezza e di eticità non alla religione, ma alla Chiesa come istituto universale, che talora potrebbe avanzare delle pretese che vanno aldilà del campo giurisdizionale ad essa afferente. Il documento di riferimento dal quale possiamo attingere chiaramente le informazioni che riguardano il pensiero cuochiano rispetto a tale questione è l'articolo pubblicato nel febbraio 1804 sul Giornale Italiano su Stato e Chiesa con riferimento al Concordato tra la santa Sede e la Francia: mentre da un lato, attraverso poche espressioni, egli elogia la religione cristiana, dall'altro afferma che il rispetto della religione dei propri padri è il primo dovere di chi ama la patria e l'amore per la religione produce, a sua volta, come primo dovere il rispetto del governo della patria. Per la vita civile, la pace religiosa costituisce un elemento indispensabile: lì dove sussistono scontri per questioni chiesastiche, la nazione vive una situazione più difficile rispetto a quella nazione dove si manifestano delle fazioni, poiché nel primo caso esse traggono origine da bisogni di natura spirituale, nel secondo caso da esigenze di ordine materiale. In Francia, come rileva il Cuoco, con la decadenza della religione, lo Stato ha subìto diversi danni nella sua autorità; perché il rapporto tra Stato e Chiesa diventi ottimo è necessario che la Chiesa rinunci ad ogni pretesa di potere di natura temporale e che lo Stato riconosca il valore della religione, dandole i mezzi necessari per realizzare i compiti a lei affidati. Mentre le motivazioni che hanno dato vita al dominio temporale della religione sono profonde ma di ordine storico, le ragioni della sua grandezza spirituale sono di ordine eterno, perché scritte nella coscienza dell'uomo e sono insopprimibili. Nelle conclusioni dell'articolo emerge che la religione va considerata non soltanto nel suo valore eterno per la vita dello spirito, ma anche come manifestazione della vita civile e politica, in quanto, secondo il Cuoco, la religione non è mai in contraddizione con i veri bisogni dell'uomo ed i valori del Cristianesimo sono esattamente quelli che rispondono alle autentiche necessità del popolo: i principi di libertà, di pace e di giustizia che esso propugna, sono alla base dello Stato moderno, ed è per queste motivazioni che il cristianesimo rappresenta, secondo il Cuoco, la religione che più di tutte si adatta ad una forma di governo moderato e liberale. Nel giurisdizionalismo confessionale del 1700, anteriore alla Rivoluzione dell'89, troviamo principi fondati su convinzioni di natura religiosa, che producono nel campo morale un predominio della Chiesa sullo Stato; il giurisdizionalismo napoleonico, seguito dal Cuoco, al contrario, ha cause d'ordine più politico che religioso e s'ispira all'esame delle condizioni storiche. Critico avversario di ogni estremismo politico, sia di quello giacobino che conduce al Terrore sia di quello sanfedista che nel Regno di Napoli travolge le speranze e le vite dei repubblicani, il Cuoco si differenzia dagli altri pensatori politici del suo tempo, per i quali il confessionismo ha delle basi di natura effimera, per il fatto che egli nella religione scorge una parte non sopprimibile della vita spirituale.
Sempre a proposito della sfera religiosa, degne di nota secondo il filosofo sono anche le riflessioni che Lutero propose circa il rapporto tra religione e libertà di pensiero in vista di società più consapevoli e tolleranti. Non molto diversamente da quanto proposto dal monaco agostiniano, alla religione Cuoco accosta, antepone quasi, una specie di "educazione del cuore", ovvero l'insegnamento della morale e delle virtù pubbliche senza le quali la religione si trasforma in "apparenza e superstizione". Importante affinché ciò avvenga è che religione e morale siano indipendenti e "dimostrabili" ciascuna per se stesse. Questa singolare opinione chiarisce, tuttavia, il senso del discorso cuochiano che, evidentemente, guardava alla religione nella sua dimensione etica e nella sua ineliminabile funzione sociale. In ogni caso per edificare su solidi basi la Politica egli raccomanda che lo Stato deve avere due fondamenti: l'istruzione da un lato e la religione dall'altro; lo Stato non può essere agnostico, poiché la religione è una componente basilare della sua stessa essenza. Anche se si dichiarasse tale, nel momento in cui opera nell'ambito delle singole coscienze, deve di fatto riconoscere l'importanza dell'attività religiosa; l'unico limite alle funzioni dello Stato è dato dalla capacità della volontà generale di interpretare le volontà particolari anche per mezzo della scintilla religiosa insita nell'animo di ogni essere umano.
4 - Storia, diritto, istituzioni
Per Cuoco la storia che aiuta a discernere il tutto non è la storia "de' geni, de' spiriti", affidata "all'astratta e sottile metafisica" e neppure la "storia filosofica", che fa capolino nella "storia della civiltà", assai spesso incapace di cogliere le distinzioni e cioè di comprendere la molteplicità della realtà. Seguendo gli insegnamenti di Giambattista Vico, per il Cuoco occorre interrogare la storia per trovare "le origini dei popoli", come Vico aveva fatto con la storia di Roma, utilizzata quale "esempio sperimentale di quella storia eterna del genere umano che egli ha osato disegnare". Ma c'è di più. Il vero scopo di chi indaga le origini dei popoli è conoscerne «lo sviluppo vero», senza corrompere "la serie e la successione delle cose", ossia dedicarsi alla conoscenza dell'effettività delle cose quali sono realmente accadute. La vera Storia civile per Cuoco è quella che sa riconoscere le leggi di vita delle nazioni. Per "leggi" il Cuoco intende l'intersecarsi di eventi, tradizioni, usi, costumi dei popoli, l'istruzione ma anche gli aspetti economici, le dinamiche dei prezzi, della produzione agricola o manifatturiera che mai possono scindersi dalla politica in senso generale. Egli si spese molto affinchè le elites intellettuali comprendessero tale inscindibile relazione affinché non si verificasse più, come nella Rivoluzone del 99, quella separazione irricucibile tra classi dirigenti e popolo.
La sintesi che Cuoco ricerca sembra possibile nell'universo giuridico. Religione, economia, tradizioni, politica trovano la loro concreta esegesi nelle istituzioni civili il cui fine deve essere "la massima concordia tra le parti e la massima energia del tutto"[18]. Bisogna costruire "uno Stato costituzionale per il cui realizzarsi la rivoluzione non è stata inutile, perché, per suo mezzo, si è ottenuta una forma di governo costituzionale, e, quand'anche si volesse credere che questa non sia ancora perfetta, si è sempre ottenuto molto avendone una"[19]. Si tratta di realizzare un apparato statale che sappia utilizzare la rivoluzione e fermarla al momento opportuno perché non degeneri, a danno delle "utili riforme". È questo il programma di Cuoco per concretizzare un processo che vede molto indietro i popoli italici, soprattutto se paragonati agli Stati d'Europa che sono cresciuti militarmente ed economicamente anche grazie a carte costituzionali. Nel proclama del marzo 1799, redatto certamente anche per mano sua, l'appello a sostenere la Repubblica era affidato alla "pace nelle famiglie, all'integrità ne' magistrati, la moralità e l'osservanza delle leggi in tutti i cittadini, l'amicizia, la fratellanza, la vera democrazia". Ma non di meno vi si legge l'alto richiamo ai costumi, alle tradizioni. La sua riflessione non trascura infatti il problema dell'identità, dei "caratteri" dei popoli, che nulla esprime più e meglio della conoscenza dei loro "costumi". E su ciò il Saggio storico fornisce una vera e propria fenomenologia. Una sensibilità particolare che egli riserva anche al tema dell'autorità dello Stato e della sua giustificazione. Riprendendo i temi del dibattito di fine Settecento sul dispotismo, a cui la massoneria contribuì ad assicurare larghissima circolazione, li traduce nella distinzione e nel rapporto tra "leggi civili" e "leggi politiche". L'autorità dello Stato sta nell'equilibrio fra queste due leggi, le prime fondamento, base e criterio della costituzione (ossia dell'ordinamento giuridico), le seconde garanti della specificità di ciascuno Stato collegato all'ethos e all'ethnos di ciascun popolo: ambiti da organizzare e governare, da cui la necessità che le costituzioni siano come le vesti e le scarpe che devono tener conto del corpo da rivestire, ossia i costumi e i caratteri dei popoli. Ispirandosi certamente a Rousseau Cuoco rileva che la "la legge è la volontà generale", inserendo un elemento di novità quando, a proposito della "volontà particolare", attribuisce un compito di mediazione alla legge che ciascuna nazione ha per propria. Il suo senso della storia prevede inevitabilmente dei momenti "particolari", quelli inerenti al carattere dei popoli che devono essere necessariamente tenuti in conto nella formulazione legislativa e costituzionale. Si tratta qui della questione della giustificazione della politica, intesa non più come ricerca della forma migliore di governo, ma quale regolatrice dell'azione dell'uomo, dei suoi bisogni e delle forze (istituzioni) necessarie a soddisfarli. Pensiero spiegato da frasi quali "la buona costituzione non è quella che solo porta al governo gli ottimi», perché «la nazione sarà felice, qualunque sia la forma del suo governo quando lo Stato saprà conseguire la felicità del maggior numero". Le istituzioni, non diversamente dalla politica, sono campo d'azione per l'integrazione di morale, religione e benessere; in tal senso la filosofia politica del Cuoco, fonte del suo pensiero giuridico, va in direzione opposta rispetto a quella del dispotismo illuminato o rivoluzionario che sia, e che ha travolto l'individuo come uomo e come singolo. Per Cuoco la diade virtù-felicità deve tradursi nella diade virtù-utilità che equivale alla trasformazione della felicità in pubblica e privata moralità, ovvero ciò che Cuoco chiama «leggi politiche» e «leggi civili», fondamenti della costituzione e garanzia dell'uomo come libero cittadino nella concretezza del suo essere parte di un ambiente peculiare.
All'elogio della virtù, Cuoco associa quello della proprietà privata (nel Platone avevamo letto l'elogio dell'agricoltura come base della società), in quanto principio irrinunciabile di uno Stato moderno ordinato e tranquillo, capace di evolvere con giuste riforme senza cedere agli estremismi dei radicalismi. La proprietà è la base di tutte le costituzioni che, consolidatasi nelle forme di uno Stato costituzionale, deve aprire la strada a una società fondata sul lavoro, che a sua volta produce e legittima la proprietà privata. Un obiettivo da raggiungere scongiurando il pericolo, divenuto quasi un'ossessione dopo il fallimento della Repubblica, che la rivoluzione affoghi le sue autentiche possibilità nella ricerca chimerica dell'eguaglianza dei beni", principio irreale e massimamente dannoso politicamente. Una preoccupazione che accompagnerà larga parte del pensiero risorgimentale secondo cui l'eccesso rivoluzionario, nelle condizioni italiane, porta alla reazione e non alla democrazia. Il progetto che infatti vide Cuoco protagonista del governo murattiano nelle scelte per l'organizzazione costituzionale del Regno sono le cosiddette utili riforme: la riforma dell'istruzione, l'autonomizzazione della funzione amministrativa, la riforma del sistema fiscale, l'attenuazione del sistema feudale, l'organizzazione della giustizia, la costituzione delle istituzioni per l'educazione delle donne. Una serie di provvedimenti volti cioè a rafforzare il senso comune e lo spirito pubblico in vista della costruzione della società civile. È in questa prospettiva di modernizzazione che comprendiamo la meglio l'entusiastica adesione del Cuoco al tentativo di Murat di dare vita ad una nuova forma statale, vissuto con sinceri appelli all'amor della patria e all' "orgoglio nazionale".
5 - Il diritto: sintesi tra le classi sociali e l'amor di patria
Fra i temi principali del Saggio, opera di complessa ricchezza tematica, vi sono quelli che ruotano attorno alla ricerca del ruolo che il popolo deve ricoprire nella vita delle comunità politiche e quale fondamento costituzionale fornire ad uno Stato finalmente moderno. La sua idea cardine parte dal presupposto che l'ordine costituzionale non debba essere imposto dall'alto, poiché in questo caso pochi sarebbero in grado di prendere parte alle dinamiche politiche col risultato di deviare le azioni di governo verso pericolose oligarchie. Ecco perché, in taluni frangenti storici egli preferisce una monarchia costituzionale e temperata, solo quadro di riferimento per una progressiva maturazione della società, ad una repubblica oligarchica, privata e distante del consenso e del concorso popolare.
Nel Saggio e nei Frammenti sulla Costituzione il Cuoco si ricollega alla riflessione che il costituzionalista Francesco Mario Pagano aveva già indicato come determinante per la configurazione dell'ordinamento giuridico dello Stato: l'idea di "popolo", cardine della Rivoluzione e di molti degli articoli della Costituzione. Quando diciamo popolo, aveva scritto Pagano nel "Proemio" alla Carta per indicare l'ambito proprio e i limiti del suo discorso, si intende: "parlare di quel popolo, che sia rischiarato ne' suoi veri interessi, e non già d'una plebe assopita nella ignoranza e degradata nella schiavitù, non già della cancrenosa parte aristocratica. L'uno e l'altro estremo sono de' morbosi tumori del corpo sociale, che ne corrompono la sanità. È increscevole al certo, che non abbiamo nelle moderne lingue voce per esprimere la nozione che vogliamo designare"[20]. Pur apprezzando lo sforzo del Pagano di cogliere le complesse trasformazioni in atto, Cuoco comprese che la stratificazione sociale del Regno di Napoli bisognasse di maggiore precisione descrittiva dal punto di vista sociologico ma soprattutto di una migliore e più adeguata definizione giuridica. Nasceva da qui la teoria dei "due popoli" che rappresenta la più penetrante interpretazione delle condizioni del vecchio Regno e delle ragioni del disastroso fallimento della rivoluzione a Napoli ma, altresì, la chiave storiografica per capire il dualismo dell'intera storia d'Italia, che anche il Cuoco, dopo il 1799, non mancò di affrontare. I rivoluzionari del 1799 furono colpevoli non solo dal punto di vista politico e sociale ma soprattutto giuridico in quanto non seppero, o vollero, tradurre nelle istituzioni l'effettività della realtà del Regno e dell'Italia meridionale. Si trattava, infatti, di suturare i due popoli nell'armonia di un'organizzazione giuridico-costituzionale, che riguardasse, dice Cuoco con spietato realismo, "gli oziosi lazzaroni di Napoli, i feroci Calabresi, i leggieri Leccesi, gli spurei Sanniti, insieme con i raffinati rappresentanti dell'aristocrazia di nascita e di cultura"[21]. Inoltre i rivoluzionari non seppero cogliere la decisiva importanza che religione e proprietà privata avrebbero potuto ricoprire nel nuovo quadro costituzionale della Repubblica; preferirono, accecati da una sorta di furore ideologico, abbattere quelle istituzioni che per secoli avevano rappresentato lo scheletro delle società meridionali e per questo il popolo non li comprese e vennero travolti dall'onda reazionaria. Anche per queste ragioni la Costituzione del 1799 a giudizio del Cuoco rappresentò un momento non risolutivo: mancò l'intelligenza di convogliare le legittime aspirazioni dei popoli alla libertà e alla giustizia in un quadro legislativo-costituzionale comprensivo dei fenomeni sociali.
[1] Scritti Vari Parte prima: Periodo Milanese 1801-1806, Parte seconda: Periodo Napoletano 1806-1815 e Carteggio, Laterza 1924.
[2] Per comprendere gli eventi che caratterizzarono quei delicati anni tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento vedi C. Zaghi, L'Italia di Napoleone dalla Repubblica Cisalpina al Regno, Utet Torino, 1976.
[3] Sul complesso tema di come in Italia si pensò alla Rivoluzione francese vedi l'opera di E. Diaz, L'incomprensione italiana della Rivoluzione francese, Bollati Boringhieri, Torino, 1989.
[4] Sul tema Storicismo e origine dell'Idealismo vedi F. Tessitore, Altri contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2007.
[5] Per approfondimenti sul tema e sull'impegno del Cuoco nel volere tradurre le idee in concreta azione politica vedi F. Tessitore, Filosofia, storia e politica in Vincenzo Cuoco, Marco editore, Lungro 2002.
[6] Per approfondire il periodo milanese del Cuoco vedi S. Nutini, Vincenzo Cuoco a Milano (1800-1806). Inediti e rari, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, Roma 1989.
[7] Sull'ambiente politico, sociale e amministrativo di Napoli tra il regno di Giuseppe Bonaparte e quello di Gioacchino Murat vedi P. Villani, Il Decennio francese, Napoli 1799-1815, Dalla Repubblica alla monarchia amministrativa, Edizioni del Sole, Napoli 1995.
[8] Sulla questione delle alleanze militari e politiche da ricercare in vista della possibile unità della Penisola, vedi M. Romano, Vincenzo Cuoco nella storia del pensiero e dell'unità d'Italia, La Nuova Italia editrice, Firenze 1933.
[9] Per un'ampia panoramica su ciò che la seconda metà del Settecento ha rappresentato per gli intellettuali italiani vedi V. Ferrone, I profeti dell'Illuminismo, le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano, Laterza, Roma Bari 1989.
[10] Vedi G. Giarrizzo, Massoneria e Illuminismo nell'Europa del Settecento, Marsilio, Venezia 1994.
[11] Per il panorama filosofico partenopeo, i suoi protagonisti e le tematiche più dibattute vedi G. Galasso, La filosofia in soccorso de governi, Guida, Napoli, 1989.
[12] Per orientarsi nella vasta bibliografia cuochiana, sia per le edizioni delle opere sia per la letteratura secondaria, si veda Contributo alla bibliografia cuochiana, a cura di G. Palmieri, Campobasso 2000, aggiornato dagli «Annali cuochiani», diretti da L. Biscardi.
[13] Sul ruolo da protagonista che il Cuoco ebbe nell'alveo del pensiero politico meridionalista vedi G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale nel secolo XVIII e XIX, Laterza, Bari 1921.
[14] "Questo dettaglio vale a suggerire come il misogallismo di Cuoco fosse insito nello stesso giacobinismo napoletano...nei termini di una riflessione mirata alle scelte politiche di Cuoco, queste considerazioni inducono a ritenere che il rifiuto del 1793 e lo scetticismo con il quale egli guardò alla congiura dell'anno successivo non siano sufficienti a escluderlo dal quadro di riferimento del giacobinismo e valgano a ipotizzare solo un circostanziato dissenso rispetto al robespierrismo. A De Francesco, Vincenzo Cuoco una vita politica, pag 13-14, Laterza, Bari 1997.
[15] Il Cuoco si fece promotore dell'incontro di temi politico-culturali eterogenei provenienti dalla migliore tradizione europea con lo scopo di dare forma e vita ad un autentico pensiero filosofico-politico italiano, in grado di interpretare la peculiare situazione dell'Italia in vista del necessario riformismo di cui i vari stati italiani necessitavano e per un ambizioso progetto di unità nazionale. A tal proposito vedi F. Battaglia, L'Opera di Vincenzo Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in Italia, Bemporad, Firenze, 1925.
[16] Sulla notevole capacità politica del Cuoco di interpretare il suo tempo, scegliendo un atteggiamento non dogmatico o estremistico vedi C. Campanelli, Il realismo politico di Vincenzo Cuoco, AGEA, Napoli 1974.
[17] Per approfondimenti vedi F. Vander, De Philosophia italica, Modernità e politica in Vico e Cuoco, Pensa Multimedia, Roma, 2010.
[18] Vincenzo Cuoco, Pagine giornalistiche, a cura di F. Tessitore, Laterza, Bari 2011, p. 156.
[19] Pagine giornalistiche, op cit., pp. 262 e 259.
[20] La Costituzione della Repubblica napoletana del 1799, a cura di A. Fratta, Fridericiana Editrice Università, Napoli, 1997, pag 13.
[21] Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli, a cura di A. De Francesco, Laterza, Bari 1998, pag. 518.