Diritto
Gianfranco Peluso
Sommario: 1. Il salario minimo nel diritto internazionale convenzionale: Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, Convenzioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, Carta Sociale Europea. - 2. Unione Europea e salario minimo. - 2.1 Art. 153 par. 5 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea. - 2.2 Segue. Pilastro Europeo dei diritti Sociali: il riconoscimento del diritto alla retribuzione equa e alla retribuzione minima adeguata. - 2.3 La proposta di direttiva sul salario minimo. 2.4 Il fisiologico coinvolgimento della materia retributiva nelle azioni delle Istituzioni europee - 2.5 Segue. Alcune pronunce della Corte di Giustizia concernenti, direttamente o indirettamente, la tematica retributiva. - 2.6 Minimi retributivi dei lavoratori autonomi e divieto di ricorrere alla contrattazione collettiva posto dalla disciplina antitrust: la Corte di Giustizia indica la via dei minimi legali. L'eccezione dei "falsi autonomi". 3. Il salario minimo: i modelli nei Paesi europei. - 3.1 Il modello consultivo francese. - 3.2 Il modello negoziale tedesco. - 4. Conclusioni.
1. Il salario minimo nel diritto internazionale convenzionale: Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, Convenzioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, Carta Sociale Europea.
Il riconoscimento ad ogni persona della dignità per mezzo del lavoro dipende necessariamente, oltre che dalle condizioni in cui il lavoro viene prestato, dall'ammontare della retribuzione e in particolare dal rispetto di livelli salariali minimi al di sotto dei quali il lavoro non può essere considerato dignitoso.
L'importanza del tema della tutela dei minimi salari trova conferma nelle regole di diritto sovranazionale riguardanti il mercato del lavoro.
La sentita esigenza di regole universali capaci di affrontare i bisogni comuni ai cittadini e alle imprese globalizzati, le quali ambiscono a porre un argine -seppur minimo- al dilagare sui mercati globali della legge del più forte, fa sì che sia sempre maggiore l'attenzione dei giuslavoristi per tali disposizioni[1].
In quest'ottica, particolare importanza riveste la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo -adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948-, la quale, all'art. 23 par. 3[2], sancisce che «Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana e integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale».
Tuttavia, pur svolgendo un ruolo importante per lo sviluppo del diritto internazionale, le Dichiarazioni di principi dell'Assembla generale dell'ONU hanno un mero valore di esortazione, non avendo carattere vincolante[3].
Ad ogni modo, il principale punto di riferimento sovranazionale in materia retributiva deve essere rinvenuto nelle Convenzioni dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), Istituto specializzato delle Nazioni Unite.
Le funzioni più importanti dell'OIL consistono nell'emanazione di raccomandazioni e nella predisposizione di progetti di convenzione multilaterale in materia di lavoro, i quali, se approvati dalla Conferenza[4] a maggioranza di due terzi, vengono comunicati agli Stati membri che sono liberi di ratificarli o meno, sussistendo soltanto l'obbligo di sottoporli entro un certo termine agli organi competenti per la ratifica[5].
L'OIL, sin dalla sua costituzione col Trattato di Versailles del 1919, ha prestato attenzione al problema dei salari bassi[6]. Tale riguardo trova conferma nella Convenzione n. 26 del 16 giugno 1928[7] concernente l'introduzione di metodi per la fissazione dei salari minimi. La Convenzione obbliga tutti gli Stati che la ratifichino ad «introdurre o a conservare metodi che permettano di fissare le aliquote minime di salari per i lavoratori occupati nelle industrie o in rami di industrie (in modo particolare nelle industrie a domicilio), ove non esista un regime efficace per la fissazione dei salari mediante contratto collettivo o in altro modo, e laddove i salari siano eccessivamente bassi»[8]. Agli Stati è lasciata discrezionalità circa i metodi per la fissazione dei minimi e le loro modalità, purché siano rispettate talune condizioni: la necessaria consultazione dei rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori interessati in un determinato settore produttivo, l'inderogabilità in peius da parte della contrattazione individuale e collettiva, nonché l'adozione da parte di ogni Stato dei provvedimenti necessari, mediante un sistema di controllo e di sanzioni. Attraverso questo meccanismo i datori di lavoro e i lavoratori interessati possono conoscere le aliquote minime dei salari in vigore, le quali non dovrebbero mai essere inferiori ai salari effettivamente corrisposti[9].
A questa prima Convenzione va riconosciuto un alto valore simbolico in quanto si pone in evidente contrasto con l'imperante dogma liberista messo poi in discussione il 24 ottobre del 1929, il c.d. "giovedì nero", con l'improvviso crollo della borsa di Wall Street[10].
Altra importante convenzione è la n. 117 del 22 giugno 1962[11], la quale tra gli obiettivi di base della politica sociale include l'obbligo di garantire una retribuzione in grado di assicurare un livello di vita minimo che tenga conto anche dei bisogni essenziali della famiglia del lavoratore (art. 5), prevedendo che la determinazione del salario debba avvenire attraverso il ricorso alla contrattazione collettiva o, in mancanza, tramite l'intervento del legislatore (art. 10).
Una terza Convenzione dell'OIL[12], la n. 131 del 22 giugno 1970[13], ha per oggetto i minimi salariali e ad essa si affianca la Raccomandazione n. 135 del 1970. Con tale Convenzione gli Stati hanno assunto l'impegno di «stabilire un sistema di salari minimi che protegga tutti i gruppi di lavoratori dipendenti le cui condizioni di impiego siano tali da rendere opportuna la loro protezione»[14] (art.1). Il campo di applicazione è esteso, questa volta, a «tutti i gruppi di lavoratori dipendenti le cui condizioni di impiego siano tali da rendere opportuna la loro protezione». L'individuazione dei gruppi di lavoratori dipendenti meritevoli di protezione spetterebbe alle autorità competenti di ciascun Paese, le quali dovrebbero agire in accordo, o dopo piena consultazione, con le organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori interessate (art. 1). L'ambito di applicazione potrebbe quindi essere limitato a talune categorie fornendo adeguata giustificazione all'OIL[15]. Il secondo articolo della Convenzione chiarisce che «i salari minimi devono avere forza di legge e non potranno essere abbassati» e che, pertanto, norme penali o altre adeguate sanzioni dovrebbero garantirne il rispetto. Allo stesso tempo nel medesimo articolo viene posto l'obbligo di rispettare la «libertà della contrattazione collettiva».
La Raccomandazione n. 135 del 1970, al punto IV, indica cinque modalità attraverso le quali può avvenire la fissazione del salario minimo: legge, decisione di un'autorità competente, decisione dei consigli salariali, decisione da parte del tribunale del lavoro[16], conferimento di forza di legge alle disposizioni dei contratti collettivi.
L'attenzione dell'OIL nei confronti della tematica salariale trova conferma anche nella «Dichiarazione del centenario per il futuro del lavoro» adottata a Ginevra il 21 giugno 2019 in occasione dei cento anni dalla fondazione dell'Organizzazione. Con tale documento la Conferenza ha auspicato che i suoi Membri si adoperino per garantire una protezione adeguata per tutti i lavoratori, tenendo in considerazione anche «un salario minimo adeguato, stabilito per legge o negoziato»[17].
Sempre nell'ambito del diritto sovranazionale, il tema del salario minimo trova spazio nella produzione normativa del Consiglio D'Europa[18].
Pur non trovando riferimento nella Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) del 1950, il tema dei minimi salariali trova spazio nella Carta Sociale Europea adottata a Torino nel 1961 e rivista nel 1996.
Nella parte II della Carta, l'art. 4 sancisce il diritto all'equa retribuzione: «per garantire l'effettivo esercizio del diritto ad un'equa retribuzione, le Parti s'impegnano: 1) a riconoscere il diritto dei lavoratori ad una retribuzione sufficiente tale da garantire ad essi e alle loro famiglie un livello di vita dignitoso».
Sancire tale diritto soltanto nella Carta Sociale implica che avverso le condotte contrarie al dettato normativo elaborato in seno al Consiglio d'Europa in tema di retribuzione non sarà possibile per il singolo individuo ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. La violazione potrà soltanto essere oggetto di denuncia innanzi al Comitato Europeo per i Diritti Sociali, organo non giurisdizionale al quale possono essere proposti solo reclami collettivi[19], ciò qualora il Paese sia incluso tra quelli che hanno ratificato il relativo protocollo[20]. In caso di accoglimento del reclamo, la relativa decisione viene trasmessa al Comitato dei Ministri, principale organo di Governo del Consiglio d'Europa che, in base al rapporto del Comitato di esperti indipendenti, adotta una risoluzione a maggioranza dei votanti. Se il Comitato di esperti indipendenti accerta un'attuazione non soddisfacente della Carta, il Comitato dei Ministri adotta una raccomandazione destinata alla parte contraente chiamata in causa (art. 9). Le decisioni del Comitato non sono in grado di creare direttamente vincoli giuridici in capo ai Paesi membri, come neppure la raccomandazione crea alcun vincolo giuridico per lo Stato inadempiente[21]. Il Comitato Europeo per i Diritti Sociali, nonostante sia un organismo privo di strumenti d'intervento, è riuscito con mezzi non giurisdizionali ad ottenere importanti risultati[22] e, in molte decisioni, si è spinto fino al punto d'imporre agli Stati degli obblighi di risultato, non accontentandosi dell'assunzione di impegni generici pur riconoscendo un margine di apprezzamento nella scelta dei mezzi destinati a garantire i diritti[23].
La Carta Sociale, pur contenendo norme non cogenti e prive di applicabilità diretta, è stata considerata dalla Corte Costituzionale come parametro interposto di costituzionalità ai sensi dell'art. 117, co. 1, Cost.[24].
Inoltre, la C[1]Dichiarazione del Centenario dell'OIL per il Futuro del Lavoro adottata dalla Conferenza nella sua centottesima sessione, 21 giugno 2019, in www.oil.org, pp. 6 e 7.
arta Sociale può essere considerata, per il diritto del lavoro, una sorta di programma in cui si indicano i tratti del decent work[25], che ha consentito la sindacabilità delle riforme degli ultimi anni dettate dalle politiche dell'austerity imposte ai Paesi dell'Eurozona[26]. In particolare, sono state oggetto di giudizio da parte del Comitato per i Diritti Sociali le misure adottate dalla c.d. Troika (Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea) nei confronti del Governo greco, aventi come obiettivo una riduzione dei minimi salariali. Il Comitato per i Diritti sociali[27], a seguito di un reclamo sollevato dalle organizzazioni sindacali greche[28], ne ha infatti accertato il contrasto con il diritto all'equa retribuzione minima previsto dall'art. 4 della Carta.
L'intervento del Governo greco sui minimi salariali, con l'Act of Cabinet n. 6 del 2012 confermato dalla legge n. 4093 del 2012, è particolarmente emblematico dato che ha sancito il passaggio da un sistema in cui i minimi retributivi venivano fissati per via contrattuale[29] ad un sistema legale di regolazione. In tal modo il salario minimo legale ha rappresentato uno strumento, in un periodo di profonda crisi economico-finanziaria, per fornire delle risposte alle richieste della Troika e ottenere una riduzione pari al 22% (e ancora più gravosa per gli under 25) dei previgenti livelli salariali minimi previsti dalla contrattazione collettiva[30].
In un momento storico in cui la regolazione basata sulla competitività prevale sulla regolazione basata sui diritti, la Carta Sociale Europea potrebbe rimarcare a livello sovranazionale l'importanza dei diritti sociali anche alla luce del ruolo tradizionalmente marginale che hanno rivestito nell'ordinamento dell'Unione Europea. Per contrastare gli elevati livelli di disuguaglianze che sono stati raggiunti, è però fondamentale in primis una presa di coscienza sul fallimento delle politiche economiche dominanti: l'attuazione dei suddetti principi è legata ad uno stravolgimento dei rapporti di forza tra mercato e politica; in altre parole, la tutela dei diritti sociali è legata ad una rivalutazione critica del modello capitalistico e alla riaffermazione degli interessi pubblici su quelli privati[31].
2. Unione Europea e salario minimo.
In assenza di una comune regolamentazione, i Paesi europei conoscono differenti livelli di tutela salariale che si traducono in differenti soglie di salario minimo mensile: da meno di 300 € per la Bulgaria, a sopra i 1000 € per la Spagna e addirittura circa 2000 € per il Lussemburgo[32].
I livelli salariali particolarmente bassi in alcuni Paesi europei creano dei problemi in almeno due ordini di direzioni: il fenomeno dei c.d. lavoratori poveri, in virtù del quale molti lavoratori non riescono a superare la soglia di povertà, e il problema del dumping salariale fra i vari Stati europei.
Dal canto suo, l'Unione Europea non ha ancora fatto abbastanza: le Istituzioni europee hanno infatti assecondato politiche di contenimento dei salari sia per "far quadrare i conti" dei Paesi a rischio di tracollo, sia nell'esercizio nell'ordinario ciclo di governance economica[33].
2.1 Art. 153 par. 5 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea.
Non si riscontrano, nel diritto primario dell'Unione Europea, regole sulla determinazione dei salari e questo, probabilmente, è il frutto della "freddezza" della Comunità Economica Europea del 1957 nei confronti delle tematiche sociali. Nonostante le modifiche ai Trattati Istitutivi (a partire dall'accordo sulle politiche sociali allegato al protocollo di Maastricht del 1991) che hanno dato origine alla c.d. Europa sociale, nell'art. 153 par. 5[34] del TFUE (come nel vecchio 136 par. 5 TCE) si esclude la materia retributiva da quelle che possono essere oggetto di misure di armonizzazione[35].
La mancanza di competenza dell'Unione Europea in materia di retribuzione sembrerebbe essere un elemento pacifico in dottrina[36] e in giurisprudenza[37] (ma vd. infra par. 2.3), in quanto l'esplicita esclusione del 153 TFUE non consentirebbe nemmeno un temperamento del principio di attribuzione attraverso la "clausola di flessibilità" (art. 352 TFUE) oppure ricorrendo alla "teoria dei poteri impliciti" data l'impossibilità di aggirare i divieti di armonizzazione previsti dai Trattati[38]. La lacuna non può essere colmata neppure ricorrendo al dialogo sociale previsto agli artt. 154 e 155 TFUE, e cioè pervenendo ad un Accordo Quadro il quale potrebbe essere oggetto di una decisione di attuazione da parte del Consiglio, previa proposta della Commissione: ciò perché l'ambito del dialogo sociale è limitato alle materie di cui all'art. 153 TFUE, tra le quali la retribuzione non compare[39].
La situazione sarebbe stata diversa, invece, se fosse entrato in vigore il Trattato Costituzionale del 2004, il quale prevedeva all'art. III-210 interventi di sostegno dell'Unione Europea nei settori della politica sociale attraverso leggi o leggi-quadro europee; e, sulla base dell'art. III-212, sanciva la possibilità delle parti sociali firmatarie di un accordo collettivo di chiederne l'attuazione in base a regolamenti o decisioni europei[40].
La materia retributiva, inoltre, non trova alcun riferimento nella Carta dei diritti fondamentali, proclamata a Nizza nel 2000 da Parlamento Europeo, Consiglio e Commissione, che costituisce una summa dei principi e delle libertà fondamentali comuni agli Stati membri e che, a seguito della modifica apportata dal Trattato di Lisbona all'art. 6 par. 1 TUE, ha il medesimo valore giuridico dei Trattati[41]. L'unico riferimento dal quale si potrebbe ipotizzare un legame con la retribuzione è l'art. 31 rubricato «Condizioni di lavoro giuste ed eque» che, al par. 1, sancisce: «Ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose». L'ampia formulazione della norma non permette, però, nonostante l'importanza della retribuzione per la determinazione delle condizioni di lavoro, di far desumere da tale disposizione il diritto a una retribuzione giusta ed equa[42].
La tematica retributiva trova invece spazio d'azione sul versante delle politiche e delle norme di soft law, ma non senza contraddizioni. Da un lato, infatti, le indicazioni delle Istituzioni europee legano salari e produttività nell'ottica del risanamento dei conti pubblici, accentuando la flessibilità salariale e prestando poca attenzione alla problematica dell'uniformazione dei minimi salariali[43] o addirittura, come nel caso greco[44], ricorrendo alla legislazione sui minimi per contenere il generale costo del lavoro; dall'altro lato, invece, le Istituzioni europee esprimono un sostegno all'introduzione di un salario minimo nei vari Stati[45].
L'introduzione di un salario minimo legale nei vari Stati è stata infatti auspicata dal Parlamento Europeo nella Risoluzione del 15 novembre 2007 sull'inventario della realtà sociale[46] in cui, al punto 32, si ritiene che «sia opportuno stabilire, a livello degli Stati membri, un salario minimo dignitoso, se del caso in collaborazione con le parti sociali, in modo da rendere il lavoro finanziariamente sostenibile; riconosce tuttavia che, in numerosi Stati membri, il salario minimo è fissato a un livello molto basso o al di sotto della soglia di sussistenza; respinge del resto l'argomentazione secondo cui l'instaurazione di un salario minimo dissuade i datori di lavoro dal creare nuovi posti di lavoro; ritiene essenziale che i lavoratori percepiscano un salario vitale».
Anche nella Risoluzione del 9 ottobre 2008, sulla promozione dell'inclusione sociale e la lotta contro la povertà nell'Unione Europea[47], si esortano gli Stati membri a mettere in atto politiche per cui «valga la pena di lavorare» (principio del making work pay) e ad affrontare «il problema della "trappola" del basso salario e del ciclo di basso salario/assenza di salario (low-pay/no-pay) che si produce nel segmento più basso del mercato del lavoro»[48].
Sempre nell'ambito degli strumenti di soft law la questione retributiva ha trovato spazio nel Pilastro Europeo dei Diritti Sociali proclamato solennemente da Parlamento Europeo, Consiglio e Commissione il 17 novembre 2017.
2.2 Segue. Pilastro Europeo dei diritti Sociali: il riconoscimento del diritto alla retribuzione equa e alla retribuzione minima adeguata.
Il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, enunciando 20 principi chiave, si pone come obiettivo quello di creare nuovi e più efficaci diritti per i cittadini.
Tali previsioni, seppur non giuridicamente vincolanti come precisato dallo stesso Preambolo[49], rappresentano una novità importante dato che, oltre a fungere da riferimento per il Modello Sociale dell'Unione, va a esse riconosciuta un'efficacia vincolante almeno per quanto riguarda le Istituzioni dell'Unione Europea che l'hanno proclamato: ciò pone il Pilastro anche come riferimento del ciclo di coordinamento del Semestre europeo[50].
Il secondo capo del Pilastro, dedicato alle «Condizioni di lavoro eque», al punto 6 si occupa delle retribuzioni. Tale riferimento, nonostante le eccettuazioni di cui all'art. 153 par. 5 TFUE, può risultare sorprendente soprattutto se si considerano le premesse allo stesso Pilastro[51], il quale al punto 18 sancisce che esso «non comporta un ampliamento delle competenze e dei compiti dell'Unione conferiti dai trattati e dovrebbe essere attuato entro i limiti di tali poteri».
Il punto 6, lettera a), del Pilastro prevede che «I lavoratori hanno diritto a una retribuzione equa che offra un tenore di vita dignitoso». La lettera b) mira a garantire «retribuzioni minime adeguate, che soddisfino i bisogni del lavoratore e della sua famiglia in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali, salvaguardando nel contempo l'accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di lavoro», e sancisce anche il principio di prevenzione della povertà lavorativa. Infine, alla lettera c), si prevede che le retribuzioni debbano essere «fissate in maniera trasparente e prevedibile, conformemente alle prassi nazionali e nel rispetto dell'autonomia delle parti sociali».
Il riconoscimento nel Pilastro Sociale del diritto a un'equa retribuzione e a una retribuzione minima adeguata implica una limitazione dei poteri delle Istituzioni europee in quest'ambito: esse, infatti, non potrebbero richiedere o imporre, soprattutto nell'elaborazione delle Raccomandazioni, misure in contrasto con tali diritti.
Gli interventi delle Istituzioni dell'Unione Europea, qualora intervengano su aspetti della retribuzione rientranti nelle materie nelle quali hanno competenza, devono tener conto delle garanzie sancite nel Pilastro. In tal senso, i provvedimenti adottati dall'Unione negli anni precedenti alla proclamazione del Pilastro, ossia quelli citati nel precedente paragrafo che hanno imposto tagli ai salari e li hanno ancorati alla produttività, avrebbero rischiato di essere in contrasto col Pilastro qualora fosse stato già proclamato[52].
L'auspicio è che le Istituzioni europee mettano in atto gli impegni previsti nel Pilastro Sociale: in assenza di competenza dell'Unione in materia retributiva, e quindi sino a una modifica dei Trattati che possano rendere vincolanti le previsioni del Pilastro Sociale, a esse è rimesso il compito di intervenire nel solco tracciato dai principi che hanno proclamato.
A dire il vero non sembra però che, ad oggi, le Istituzioni europee abbiano fatto tutto ciò che potevano per garantire l'attuazione del Pilastro. Ciò si può desumere, ad esempio, dalla vicenda della revisione della direttiva 96/71/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 dicembre 1996 relativa al distacco dei lavoratori nell'ambito di una prestazione di servizi. La nuova direttiva (UE) 2018/957 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28 giugno 2018[53], prevede l'obbligo per le imprese distaccanti di corrispondere non più «tariffe minime salariali»[54], ma -più genericamente- una «retribuzione, comprese le tariffe maggiorate per il lavoro straordinario»[55] il cui concetto è «determinato dalla normativa e/o dalle prassi nazionali dello Stato membro nel cui territorio il lavoratore è distaccato e con esso si intendono tutti gli elementi costitutivi della retribuzione resi obbligatori da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali, da contratti collettivi o da arbitrati che sono stati dichiarati di applicazione generale nello Stato membro in questione»[56]. La direttiva non tutela quindi una retribuzione equa e una retribuzione minima in virtù di quanto sancito nel Pilastro Sociale, ma soltanto una retribuzione qualsiasi. Tale tutela è, inoltre, limitata ai soli lavoratori distaccati e non anche per i dipendenti delle imprese operanti nello stato membro ospitante[57].
2.3 La proposta di direttiva sul salario minimo.
Il 28 ottobre 2020 la Commissione europea ha presentato una proposta di Direttiva relativa a salari minimi adeguati nell'Unione europea (COM(2020) 682), la quale mira a creare quattro obblighi principali per gli Stati membri, segnatamente per quanto riguarda: la promozione della contrattazione collettiva in materia di determinazione dei salari; il rispetto di una serie di obblighi procedurali per la valutazione d'adeguatezza; l'adozione di misure per garantire l'effettività della tutela prevista dal diritto interno; la raccolta dei dati e la comunicazione degli stessi alla Commissione per il monitoraggio della
copertura e dell'adeguatezza.
Su tale proposta, il 6 dicembre 2021 il Consiglio dell'Unione Europea, composto in questa occasione dai Ministri del Lavoro dei diversi Stati Membri, ha espresso la sua "posizione generale" e ha fornito mandato al proprio Presidente per avviare i negoziati con il Parlamento Europeo per addivenire ad un testo comune che dovrà essere poi approvato da entrambi gli Organi per entrare in vigore.
Come chiarito dalla stessa Commissione europea nella relazione d'accompagnamento[58], la direttiva proposta è basata sull'articolo 153, paragrafo 1, lettera b), del trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), il quale stabilisce che l'Unione sostiene e completa l'azione degli Stati membri nel settore delle condizioni di lavoro, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità (articolo 5, paragrafi 3 e 4 TUE)). Essa, dunque, rispetterebbe pienamente i limiti imposti all'azione dell'Unione dall'articolo 153, paragrafo 5, TFUE dato che non contiene misure che hanno un'incidenza diretta sul livello delle retribuzioni.
Il dibattito sul contenuto del provvedimento è, dunque, in divenire. Tuttavia, appare chiaro come le Istituzioni europee non possano spingersi al punto da individuare un livello minimo di salario stabilito per legge, né possano imporre agli Stati membri di estendere erga omnes l'efficacia dei contratti collettivi[59].
In un Paese come l'Italia, sprovvisto di una determinazione legale del salario minimo, la direttiva potrebbe -e la proposta conferma la tesi[60]- soltanto promuovere la contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari.
2.4 Il fisiologico coinvolgimento della materia retributiva nelle azioni delle Istituzioni europee.
Nonostante la mancanza diretta di competenza dell'Unione Europea in tema di retribuzione, le azioni delle Istituzioni europee, inclusa la Corte di Giustizia, coinvolgendo trasversalmente più materie, non hanno potuto non fare riferimento alla tematica retributiva.
Nei trattati dell'Unione il riferimento alla retribuzione, oltre che nel 153 TFUE, è anche in altre disposizioni. L'art. 45 TFUE assicura la libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione prevedendo, al par. 2, che «essa implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l'impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro». L'art. 157 TFUE sancisce invece il «principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore» e attribuisce al Parlamento Europeo e al Consiglio i poteri per rendere effettivo tale diritto. Di conseguenza, il principio di parità di trattamento anche in tema di retribuzione è oggetto di diverse direttive, tra cui la 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 con il beneplacito della Corte di Giustizia[61].
È però nel sistema di governance economica europea che le "sovrapposizioni di competenza" sono particolarmente significative e si sviluppano in due direzioni: le azioni nei confronti dei Paesi a rischio default e gli interventi nell'ordinario ciclo di governance economica[62].
Nonostante dal diritto internazionale, come analizzato nei precedenti paragrafi, possa delinearsi l'idea della retribuzione come «variabile indipendente»[63] dalla congiuntura economica, a seguito delle drammatiche vicende economico-finanziarie del 2008 che hanno portato alla "crisi dei debiti sovrani", vi sono state importanti ripercussioni sui salari che hanno visto una regressione tanto per le dinamiche di mercato quanto per impulso delle autorità monetarie e finanziarie sovranazionali (la Troika in particolare). Queste hanno ingiunto ai Paesi in maggiore difficoltà il congelamento o addirittura il taglio delle retribuzioni dei dipendenti pubblici per ridurre i costi e hanno suggerito, per il settore privato, misure finalizzate a realizzare una maggiore flessibilizzazione del sistema con la modifica delle normative sui minimi salariali[64]. Il modello sociale europeo è quindi stato scosso dalla strategia della condizionalità: gli Stati "salvati" dal fallimento hanno barattato l'assistenza finanziaria dall'Unione, ricevuta in diverse forme, con riforme sottoscritte nei c.d. memorandum of understandings. Questi accordi sono stati stipulati dai Paesi periferici dell'Unione Europea in situazione di difficoltà di bilancio sia in area euro (Cipro, Grecia, Irlanda, Portogallo) che non (Ungheria, Lettonia, Romania) con la c.d. Troika (Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea)[65]. L'esempio più noto è sicuramente il già citato caso greco che ha visto l'introduzione del salario minimo legale per ottenere una riduzione delle retribuzioni[66].
Per quanto riguarda l'ordinario ciclo di governance economica, le Istituzioni dell'Unione Europea sono intervenute nel merito delle politiche salariali degli Stati membri. Nel 2015 ben undici Paesi (Belgio, Bulgaria, Croazia, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo, Portogallo, Romania, Slovenia e Spagna) hanno ricevuto raccomandazioni in materia retributiva per avere un abbassamento della soglia di salario minimo prevista dalla legge o in merito alle retribuzioni dei pubblici dipendenti. Tali raccomandazioni non hanno esercitato una semplice pressione politica ma, a seguito del c.d. Six-Pack del 2011[67], sono previste sanzioni semi-automatiche per i Paesi dell'eurozona in posizione di deficit eccessivo che non seguano le indicazioni del Consiglio e anche per gli eccessivi squilibri macroeconomici. Tra gli indicatori delle possibili fonti di tali squilibri vi è proprio il riferimento alle retribuzioni tenendo conto del rapporto tra costo del lavoro e produttività: un incremento del costo del lavoro superiore a quello della produttività comporterebbe una perdita di competitività per le imprese. Attraverso il sistema di governance economica, l'Unione Europea ha perseguito politiche di austerity e svalutazione interna per garantire la competitività di costo servendosi in particolare delle raccomandazioni emanate nel Semestre Europeo [68] che ha la funzione di coordinare le politiche economiche dei Paesi membri per tutto l'anno e permette di affrontare le sfide economiche che interessano l'Unione[69].
L'intervento delle Istituzioni europee in materia retributiva non è quindi affatto marginale e colpisce il cuore della materia comportando, per giunta, un affievolimento di tutele per i lavoratori, dando così l'impressione di mirare alla salvaguardia di mere esigenze di mercato piuttosto che di esigenze sociali.
L'assenza di un intervento a livello europeo in materia retributiva ha costituito un incentivo alla libera circolazione dei lavoratori e quindi anche, in negativo, al diffondersi di pratiche di dumping sociale[70].
Negli ultimi anni si è assistito a fenomeni di sfruttamento dell'istituto del distacco dei lavoratori per permettere ai datori di lavoro di erogare un trattamento economico non congruo e prevedendo condizioni di lavoro non in linea con la normativa del Paese ospitante. La patologia consiste quindi nell'assunzione di lavoratori in Paesi contraddistinti da bassi livelli salariali e previdenziali e con minori tutele per poi distaccare tali dipendenti in Paesi con migliori condizioni[71]. Al fine di contrastare tali pratiche, il Parlamento Europeo e il Consiglio hanno adottato talune direttive: in primis la già citata direttiva n. 96/71/CE relativa al distacco transnazionale dei lavoratori nell'ambito di una prestazione di servizi (modificata dalla direttiva n. 2018/957/UE); oltre che la direttiva 15 maggio 2014 n. 2014/67/UE c.d. "Enforcement", la quale non è intervenuta sulla direttiva del 1996, ma mira a garantirne la piena e corretta applicazione. La direttiva 2018/957, alla quale gli Stati membri hanno l'obbligo di conformarsi entro luglio 2020, per quanto concerne la retribuzione, pur rimarcando che «la determinazione dei salari è una questione di competenza esclusiva degli Stati membri e delle parti sociali», obbliga l'impresa distaccante a garantire le medesime condizioni retributive applicabili nello Stato membro in cui è fornita la prestazione di lavoro. La direttiva in questione dà una definizione ampia di retribuzione[72], inclusiva anche delle tariffe maggiorate per il lavoro straordinario, nel solco della direttiva del 2014 che aveva sostituito il concetto di tariffe minime salariali con quello di retribuzione da corrispondere ai lavoratori distaccati prescindendo dalla legge applicabile al rapporto di lavoro tra questi ultimi e i propri datori di lavoro[73]. La normativa prevede inoltre che, per poter conoscere il "costo azienda" di ciascun dipendente inviato in distacco all'estero, gli Stati membri si obbligano a pubblicare su un sito web ufficiale nazionale gli elementi costitutivi della retribuzione e le altre condizioni di lavoro e occupazione applicabili al lavoratore distaccato[74].
2.5 Segue. Alcune pronunce della Corte di Giustizia concernenti, direttamente o indirettamente, la tematica retributiva.
La Corte di Giustizia, in diverse sue pronunce, si è occupata della retribuzione, chiarendo anche le modalità in cui il vulnus di competenza di cui all'art. 153 TFUE debba essere interpretato.
La Corte dà infatti, con la sentenza Del Cerro Alonso del 2007, una lettura restrittiva dell'esclusione di competenza prevista dal vecchio art. 137 n. 5 TCE: «essa trova la sua ragion d'essere nel fatto che la determinazione del livello degli stipendi rientra nell'autonomia contrattuale delle parti sociali su scala nazionale, nonché nella competenza degli Stati membri in materia. Ciò posto, è stato giudicato appropriato, allo stato attuale del diritto eurounitario, escludere la determinazione del livello delle retribuzioni da un'armonizzazione in base agli artt. 136 TCE (ora 151 TFUE) e seguenti. Tuttavia, la detta eccezione non può essere estesa a ogni questione avente un nesso qualsiasi con la retribuzione, pena svuotare taluni settori contemplati dall'art. 137 (ora 153 TFUE), n. 1, CE, di gran parte dei loro contenuti»[75].
Tale orientamento trova conferma nella sentenza Impact[76] del 2008 la quale specifica che le Istituzioni europee non potrebbero uniformare «tutti o parte degli elementi costitutivi dei salari e/o del loro livello negli Stati membri» né potrebbero prevedere «l'istituzione di un salario minimo comunitario» perché ciò implicherebbe una diretta ingerenza del diritto comunitario nella determinazione delle retribuzioni[77]. Diverso e lecito è, invece, l'intervento con cui ci si limita a richiedere una parità di trattamento anche retributivo (in virtù del genere o dell'età), il quale non è lesivo del potere delle autorità salariali degli Stati membri[78].
Dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia avente ad oggetto i minimi salariali negli appalti pubblici e nel distacco emerge la debolezza sociale dell'Unione Europea e la prevalenza su di essa dell'Europa dei mercati, in quanto le differenze salariali tra i diversi Stati membri sono poste alla base della concorrenza[79]. Dai casi RegioPost[80] e Bundesdruckerei[81] emerge, infatti, l'impossibilità di decontestualizzare la previsione di un salario minimo: la legislazione sui minimi va applicata soltanto ai lavoratori dipendenti che svolgono la loro prestazione lavorativa nello Stato membro dell'amministrazione aggiudicatrice. A giudizio della Corte, se i minimi salariali fossero applicabili anche ai lavoratori dipendenti da appaltatori o subappaltatori che svolgono la loro prestazione lavorativa in un altro Stato membro, verrebbe lesa la libera prestazione di servizi ex art. 56 TFUE. La concorrenza si basa proprio sulle differenze salariali tra i vari Paesi e un'amministrazione non può imporre ad un aggiudicatario di un appalto pubblico l'applicazione di determinanti minimi salariali al di fuori del Paese in cui ha sede l'ente appaltatore; ciò tanto se in quest'altro Paese i minimi salariali siano inferiori, quanto se siano più elevati[82].
In materia di distacco, i limiti dell'Europa sociale emergono sin dalle pronunce del c.d. "quartetto Laval"[83] ove nel il bilanciamento tra libertà economiche e diritti sociali vi è una prevalenza delle prime[84].
2.6 Minimi retributivi dei lavoratori autonomi e divieto di ricorrere alla contrattazione collettiva posto dalla disciplina antitrust: la Corte di Giustizia indica la via dei minimi legali. L'eccezione dei "falsi autonomi".
La giurisprudenza della Corte di Giustizia si è anche occupata dei minimi di trattamento economico dei lavoratori autonomi, in particolare nelle sentenze Consiglio nazionale dei geologi c. Agcom del 18 luglio 2013[85] e FNV Kunsten Informatie en Media c. Staat der Nederlanden dell'8 dicembre 2014[86].
Nell'ordinamento europeo le tutele dei lavoratori autonomi stentano ad affermarsi in virtù dell'ampia concezione d'impresa che si è consolidata per via giurisprudenziale. Tale definizione comprende, infatti, qualsiasi soggetto che svolga un'attività economica capace di incidere anche potenzialmente sulla concorrenza a prescindere dalla natura giuridica, dalle modalità di organizzazione e di finanziamento[87]. La Corte di Giustizia ha precisato più volte che per il diritto europeo affinché un soggetto possa essere considerato lavoratore, e quindi estraneo alla normativa antitrust, è necessario che svolga una prestazione o un servizio per conto e sotto la direzione d'una impresa, formando con essa un'unica entità economica[88]. Fuori da questa ipotesi i lavoratori devono essere considerati alla stregua di un'impresa e quindi oggetto di applicazione della normativa antitrust e in particolare dell'art. 101 TFUE, il quale proibisce di stipulare intese, operare pratiche concordate e formulare in ambito associativo decisioni aventi per oggetto o per effetto impedire, restringere o falsare il libero gioco della concorrenza nel mercato interno. Inoltre, saranno da considerarsi nulle, ai sensi del par. 2, le intese collettive di lavoratori autonomi che fissino compensi minimi inderogabili in peius[89].
Nel caso Consiglio nazionale dei geologi c. Agcom, la Corte di Giustizia afferma l'incompatibilità con l'art. 101 TFUE, e quindi la nullità, della determinazione di tariffe minime da parte dell'Ordine professionale dei geologi[90].
Ad analoghe conclusioni giunge la Corte nel caso olandese FNV Kunsten Informatie, ove non esclude dall'ambito di applicazione dell'art. 101 par. 1 TFUE gli accordi collettivi contenenti «tariffe minime per i prestatori autonomi di servizi, affiliati a una delle organizzazioni di lavoratori parti del contratto, che svolgono per un datore di lavoro, in forza di un contratto d'opera, la stessa attività dei lavoratori subordinati di tale datore di lavoro»[91]. L'applicazione della disciplina antitrust è dettata dal fatto che l'organizzazione rappresentativa dei prestatori autonomi di servizi che ne sono membri «non agisce come associazione sindacale e dunque come parte sociale, ma in realtà opera come associazione di imprese»[92]. La Corte precisa, inoltre, che esula dall'applicazione della disciplina di cui all'art. 101 par. 1 TFUE la disposizione di un contratto collettivo di lavoro contenente tariffe minime salariali per i lavoratori autonomi solo qualora tali prestatori siano «falsi autonomi», ossia dei prestatori che si trovino in una situazione paragonabile a quella dei lavoratori subordinati[93].
Per poter garantire dei minimi di trattamento per i lavoratori autonomi rispettosi delle regole della libera concorrenza, non vi è che una via da seguire: l'intervento del legislatore[94].
La stessa Corte di Giustizia nel caso Consiglio nazionale dei geologi, lascia intendere che non vi è incompatibilità con la normativa a tutela della concorrenza in caso di intervento da parte di «un'autorità pubblica in quanto la sua attività si ricolleghi all'esercizio di prerogative dei pubblici poteri»[95].
Merita una riflessione, infine, il rapporto tra il quadro europeo appena delineato e art. 2 del d.lgs. 15 giugno 2015 n. 81[96], attuativo del c.d. Jobs Act, che prevede l'applicazione della disciplina del lavoro subordinato ai c.d. lavoratori etero-organizzati, vale a dire, secondo l'originaria formulazione[97], ai «rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro» (art. 2.1). Tale previsione non trova però applicazione per «le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali [...] prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo» (art. 2.2 lett. a). È quindi lecito chiedersi se tali discipline specifiche, previste dalla contrattazione collettiva nazionale, debbano considerarsi in contrasto con la disciplina europea antitrust che, per la giurisprudenza europea, deve essere applicata ai lavoratori autonomi. Se si trattasse di collaborazioni «realmente autonome», la contrattazione collettiva che fissa i minimi economici sarebbe in contrasto con l'ordinamento eurounitario così come interpretato dalla sentenza FNV Kunsten Informatie[98]. Accogliendo però la tesi secondo la quale la disposizione in questione avrebbe ampliato la nozione di lavoro subordinato, i rapporti di cui all'art. 2. co. 2 d.lgs. 81/2015 non possono essere considerati autonomi dato che o sono di lavoro dipendente oppure si tratta "falsi autonomi" secondo la definizione datane dalla Corte di Giustizia, quindi prestatori di lavoro che si trovano in una situazione paragonabile a quella a quella dei lavoratori subordinati[99]. L'intervento della contrattazione collettiva sarebbe quindi legittimo per il lavoro etero-organizzato, in quanto non si tratta di lavoro autonomo tout court: solo per quest'ultimo diviene infatti determinante il riconoscimento di tutele per via legislativa data l'impossibilità sancita dal diritto europeo di intervenire per via negoziale[100].
3. Il salario minimo: i modelli nei Paesi europei.
Anche in virtù dell'apporto del diritto convenzionale internazionale, il diritto dei lavoratori ad un salario minimo si è diffuso a livello globale nella maggior parte dei Paesi: l'OIL ha infatti stimato che il 95% dei Paesi al mondo, seppur con diversi livelli di effettività, è dotato di una qualche forma di minimo salariale[101].
A livello europeo ogni Stato garantisce il diritto al salario minimo, il quale si può considerare «pietra angolare del modello sociale europeo»[102]. In assenza di una comune regolamentazione da parte dell'Unione Europea, la sua messa a punto differisce nei diversi Paesi europei. Emergono in tal modo una molteplicità di modelli che si distinguono per una serie di fattori: i destinatari della misura, l'estensione del trattamento, l'arco temporale considerato per l'individuazione del minimo, il quantum della retribuzione minima -dagli 11,97 €/h in Lussemburgo agli 1,62 €/h in Bulgaria-, il rapporto tra il salario minimo e il livello nazionale medio delle retribuzioni, il grado di coinvolgimento delle parti sociali, i meccanismi di adeguamento del salario minimo nel tempo, i sistemi e i soggetti incaricati del controllo e della verifica[103].
A livello macroscopico la principale differenza riguarda, però, la scelta di ciascun Paese di intervenire sui minimi con la legge o affidarne la regolamentazione alla contrattazione collettiva.
In Europa 21 paesi su 27 -a seguito del recesso del Regno Unito[104] dall'Unione Europea (c.d. Brexit)- dispongono di una normativa di applicazione generale sui minimi salariali[105] che è assente in Italia, Austria, Cipro[106], Danimarca, Finlandia e Svezia ove non esiste un minimo salariale intercategoriale, ma la contrattazione prevede delle soglie differenziate su base settoriale/occupazionale[107].
Il salario minimo legale viene individuato nei vari Paesi attraverso il ricorso a differenti modelli, i quali sono stati classificati dalla dottrina prendendo in considerazione svariati elementi.
Particolarmente utile, per la capacità di esprimerne l'essenza, è la classificazione in virtù del ruolo svolto dalle parti sociali, che permette di individuare due modelli molto diffusi in Europa: quello negoziale e quello consultivo[108].
Secondo il modello negoziale gli attori sociali stabiliscono direttamente i minimi salariali oppure sono parte dell'organismo deputato ad individuare il salario minimo. Nel modello consultivo, invece, le parti sociali non fanno parte di tale organismo ma vengono soltanto da esso consultate. Potrebbe, inoltre, essere individuato in via teorica un terzo modello (c.d. unilaterale) nel quale la determinazione del salario minimo da parte del Parlamento o del Governo avvenga senza neppure la consultazione delle parti sociali[109].
Esempi emblematici dei due modelli sono, rispettivamente, quello francese e quello tedesco.
3.1 Il modello consultivo francese.
In Francia l'introduzione del salario minimo legale è avvenuta nel 1950 con l'istituto del salaire minimun interprofessionnel garanti (SMIG), poi sostituito nel 1970 dal salaire minimum interprofessionnel de croissance (SMIC)[110].
Lo SMIC trova applicazione nei confronti della generalità dei lavoratori dipendenti del settore privato. É tendenzialmente escluso nel pubblico impiego[111] e per talune categorie (tra cui apprendisti[112] e minori di 18 anni) è previsto in misura ridotta[113] in modo da non danneggiare la loro occupabilità. Il minimo salariare si sostanzia in un importo orario lordo che viene adeguato in base ad un doppio meccanismo: la rivalutazione è automatica e dello stesso valore dell'aumento dell'indice nazionale dei prezzi al consumo, quando questo registra un aumento del 2%[114]; inoltre, a prescindere da tale soglia, il Governo[115] può modificare il nuovo tasso annuale dello SMIC fissandolo attraverso decreto, con decorrenza dal 1° gennaio. In ogni caso il tasso non potrà essere inferiore alla metà dell'aumento medio del potere di acquisto della società nel suo insieme[116].
La procedura di fissazione dello SMIC è -in parte- disciplinata dalla legge, che prevede la consultazione delle parti sociali prima dell'adeguamento annuale. Il Governo consulta la Commission national de la négociation collective, la quale rende un parere sulla base di un rapporto redatto da un gruppo di esperti indipendenti. Si ritiene che tale parere abbia la valenza di una mera formalità[117].
A decorrere dall'inizio del 2022, il salario minimo orario lordo è fissato a 10,57[118] €, equivalenti ad un importo lordo mensile di 1.603,12 €, calcolato sulla base di 35 ore settimanali[119].
Per quanto riguarda il rapporto tra legge e contrattazione collettiva, lo SMIC non è derogabile in peius né dalla contrattazione collettiva né tantomeno dal contratto individuale. Alla contrattazione collettiva di branche[120] spetterà individuare il c.d. salaire minimum conventionnel[121] che ha una copertura pressoché universale tramite l'estensione dell'efficacia per decreto governativo. Qualora la contrattazione collettiva dovesse prevedere una retribuzione inferiore allo SMIC, vi sarebbe ex lege la sua sostituzione anche se potrebbe fungere da base di calcolo per taluni istituti retributivi indiretti[122].
La debolezza contrattuale dei sindacati francesi (solo 8% circa di densità sindacale) ha quindi comportato, in tale sistema, un notevole appiattimento salariale sulla soglia dello SMIC[123].
2.3 Il modello negoziale tedesco.
Fino al 2014, la Germania presentava un modello di fissazione dei minimi salariali analogo a quello italiano. Infatti, sino alla legge sul salario minimo denominata Gesetz zur Regelung eines allgemeimen Mindestlohns Mindestlohngesetz[124] (in acronimo MiLoG), l'unica fonte che definiva i minimi salariali erano i contratti collettivi di categoria. Questi, come in Italia, non erano dotati di efficacia erga omnes, anche se, in virtù di una vecchia legge sulla contrattazione collettiva del 1949, il Ministro del Lavoro aveva il potere di estenderne l'efficacia una volta appurata l'esistenza di talune condizioni. Ciò è avvenuto raramente[125] e, al pari dell'Italia, la giurisprudenza si è fatta carico del compito di garantire la giusta retribuzione estendendo l'applicazione dei minimi previsti dalla contrattazione collettiva in virtù del divieto di negozi giuridici contrari al buon costume o a contenuto usuraio sancito in alcune norme da alcune norme del BGB[126].
L'introduzione in Germania, dal 1° gennaio 2015, di un salario minimo legale universale è stata la risposta all'indebolimento -a partire dagli anni ‘90- del potere dei sindacati e quindi della bassa copertura della contrattazione tedesca[127] (stimata nel 2013 al 62%[128]); nonché alla presenza di salari bassi nei settori coperti dalla contrattazione collettiva che ha vontribuito ad alimentare il fenomeno dei working poor: negli anni precedenti all'introduzione del MiLoG, il 25% dei lavoratori guadagnava meno di due terzi del salario medio del settore di riferimento[129].
Tale scenario ha permesso di superare anche l'iniziale contrarietà delle organizzazioni sindacali all'introduzione di un salario minimo legale universale che nel 2014 è stato fissato a 8.50 € lordi l'ora[130], mentre l'attuale livello (dal 1° Gennaio 2022) è pari ad euro 9,82 ed è destinato a raggiungere 10,45 euro lordi all'ora dal 1° luglio 2022[131].
Il MiLoG trova applicazione soltanto per i lavoratori subordinati e per gli stagisti oltre che, con talune deroghe, per i mini-jobs. Dunque, non si applica: agli apprendisti (non considerati lavoratori subordinati nell'ordinamento tedesco), ai minori di 18 anni che non abbiano acquisito una qualifica professionale e ai disoccupati di lunga durata (oltre un anno) per i primi sei mesi[132].
Il legislatore tedesco ha istituito una commissione permanente di nomina governativa, la "Mindestlohnkommission", composta da nove membri: tre rappresentanti sindacali, tre rappresentanti dei datori di lavoro, due esperti indipendenti (che non hanno diritto di voto) e il presidente (che si astiene in prima battuta al momento del voto) scelto di comune accordo o in alternanza tra datori di lavoro e lavoratori[133]. Il compito della Commissione è quello di proporre al Governo, votando a maggioranza semplice dei rappresentanti delle parti sociali, le modifiche da apportare ogni due anni al saggio salariale minimo[134]. Il Governo può, con decreto, recepire o meno tale proposta ma non può modificarla. La determinazione del salario minimo viene quindi determinata dalle parti sociali: il Governo in caso di disaccordo potrà soltanto non intervenire, ragione per la quale il modello tedesco può essere considerato come negoziale[135].
4. Conclusioni.
L'analisi delle norme di diritto sovranazionale riguardarti i minimi salariali, soprattutto in virtù dei limiti di competenza dell'Unione Europea, ha messo in evidenza la necessità di un intervento del legislatore nazionale per garantirne l'adeguatezza.
Nel caso italiano, il Parlamento per raggiungere l'obiettivo ha a disposizione una serie di percorsi, riconducibili all'introduzione per legge di una soglia salariale minima e al rafforzamento della contrattazione collettiva, alla quale non è attribuita efficacia generalizzata.
Il legislatore potrà calibrare la sua scelta in relazione alle sollecitazioni provenienti dall'ordinamento eurounitario e sulla scorta dell'analisi comparatistica.
Sul primo fronte, più che dal dibattito inerente alla proposta di direttiva sull'adeguatezza dei salari, emerge, in relazione al distacco transnazionale dei lavoratori, una preferenza per la tutela delle retribuzioni attraverso la contrattazione collettiva ad efficacia generalizzata. Infatti, la direttiva europea 96/71 (modificata dalla direttiva 2018/957), che ha fissato il "nocciolo duro" di tutele da assicurare ai lavoratori stranieri durante il periodo di distacco, non fa più riferimento alle «tariffe minime salariali», in quanto l'espressione è stata sostituita con quella più ampia e generica di «retribuzione» (art. 3, par. 1, c. 1, nuova lettera c), la quale include «tutti gli elementi della retribuzione resi obbligatori» (art. 3, par. 1, nuovo c. 3), superando così un approccio di tipo minimalista e affermando un regime di piena parità di trattamento salariale fra i lavoratori distaccati e quelli locali. Per poter dare attuazione alla direttiva non sarebbe perciò sufficiente la sola previsione legislativa di un salario minimo intercategoriale; inoltre, non basterebbe neppure un mero rinvio parametrico alla contrattazione collettiva stipulata da soggetti comparativamente più rappresentativi, data l'impossibilità di fornire la prova che quest'ultima sia integralmente applicata da parte delle imprese operanti nel medesimo settore su tutto il territorio nazionale né garantire così la parità di trattamento in relazione a tutti gli elementi costitutivi della retribuzione[136].
Tuttavia, l'esperienza francese e quella tedesca dimostrano che l'efficacia generalizzata dei contratti collettivi e il salario minimo legale non sono necessariamente delle strade alternative: una loro oculata calibrazione potrebbe rafforzare il sindacato e, di conseguenza, avere effetti migliorativi sulle condizioni dei lavoratori. Infatti, l'efficacia ultra partes della contrattazione collettiva potrebbe ridimensionare i timori dei sindacati circa il rischio di livellamento verso il basso dei salari; d'altro canto, la soglia intercategoriale minima prevista per via legale, se fissata ad un livello ragionevole, potrebbe costituire un buon punto di partenza per le rivendicazioni sindacali; in più, sulla spinta del principio di proporzionalità e in modo particolare in relazione alla qualità del lavoro prestato, potrebbero registrare degli aumenti i livelli salariali già fissati dalla contrattazione collettiva immediatamente sopra il limite legislativo.
Gianfranco Peluso
[1] Zoppoli L., La retribuzione, in Curzio, Di Paola, Romei (diretto da), Diritti e doveri nel rapporto di lavoro, Giuffrè, 2018, p. 329.
[2] Dopo aver sancito nel par. 1 che «Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione» e nel par. 2 che «Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro».
[3] Conforti, Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, 2018, p. 65 ss.
[4] É l'organo assembleare dell'OIL. Ogni Stato vi partecipa con quattro delegati di cui due rappresentano il Governo e gli altri due rispettivamente i datori di lavoro e dei lavoratori.
[5] Conforti, op. cit., p. 162 ss.
[6] Sebbene il diritto al salario minimo non sia annoverato tra i c.d. core labour standards, ossia: libertà di associazione e riconoscimento effettivo del diritto di contrattazione collettiva; eliminazione di ogni forma di lavoro forzato o obbligatorio; abolizione effettiva del lavoro infantile; eliminazione della discriminazione in materia di impiego e professione. L'enucleazione di tali diritti, già riconosciuti in 8 diverse Convenzioni, è avvenuta con l'adozione della «Dichiarazione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro e suoi seguiti», il 18 giugno 1998. Inoltre, la Dichiarazione prevede in Capo agli Stati membri dell'organizzazione un obbligo di implementazione degli stessi a prescindere dalla ratifica delle convenzioni che li contengono. Sul punto vd. Borzaga, Mazzetti, Core labour standards e decent work: un bilancio delle più recenti strategie dell'OIL, in LD, 2019, pp. 448 e 449; oltre che Borzaga, Le politiche dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro e dell'Unione Europea in tema di contrasto alla povertà, in LD, 2019, p. 63 ss.
[7] Ratificata dall'Italia con l. 26 aprile 1930 n. 877. La Dichiarazione venne quindi ratificata nel ventennio fascista, periodo in cui vigeva un sistema di attribuzione di efficacia generale ai contratti collettivi. Per questo, il politico e giurista Alberto Asquini sosteneva che «tutto il terreno che l'Italia ha aveva perduto rispetto agli altri Stati nel campo della legislazione del lavoro, pur sotto il reggimento dei partiti liberali e democratici che governavano per procura del socialismo [...] è stato riguadagnato e di gran lunga superato dal Fascismo»; così Asquini, Relazione al ddl 28 novembre 1929, in Le Leggi, 1930, p. 477. La Dichiarazione, inoltre, era in linea con la dottrina salariale di Alfredo Rocco che propugnava una concezione di «giusto salario» in contrasto con la legge della domanda e dell'offerta nella determinazione dei livelli salariali, probabilmente anche in virtù delle influenze del pensiero cristiano sociale sulla dottrina salariale; così Roccella, Il salario minimo legale, in PD, 1983, p. 246 ss.
[8] Traduzione italiana non ufficiale, in www.admin.ch.
[9] Inoltre, l'art. 4, par. 2, sancisce che «Ciascun lavoratore a cui sono applicabili le aliquote minime e che ha percepito salari inferiori a tali i aliquote, deve avere il diritto, per via giudiziaria od altra via legale, di ricuperare l'importo della rimanente somma dovutagli, entro un termine che potrà essere stabilito dalla legislazione nazionale».
[10] Menegatti, Il salario minimo legale. Aspettative e prospettive, Giappichelli, 2017, p. 15.
[11] Ratificata dall'Italia con la l. 13 luglio 1966, n. 657.
[12] Preceduta dalla Convenzione n. 99 del 1951 sui metodi di fissazione dei salari minimi per i lavoratori impiegati nelle imprese agricole nonché nelle attività collegate.
[13] Questa volta non ratificata dall'Italia.
[14] Traduzione italiana non ufficiale a cura dell'Ufficio OIL di Roma, in www.ilo.org.
[15] Menegatti, op. cit., p. 16.
[16] «Industrial or labour courts or tribunals», il riferimento originale ricomprende, a seconda delle prassi proprie dei diversi Paesi, tanto gli organi giurisdizionali quanto quelli arbitrali; ibidem.
[18] Organizzazione internazionale che attualmente, dopo la recente fuoriuscita della Russia, comprende 46 Stati membri: tutti gli Stati dell'Europa occidentale e buona parte di quelli dell'Europa orientale.
[19] Come sancito dal Protocollo addizionale alla Carta Sociale Europea (adottato nel 1995), il quale prevede un sistema di reclami collettivi. Ex art. 1, infatti, «Le Parti contraenti del presente Protocollo riconoscono alle seguenti organizzazioni, il diritto di presentare reclami adducenti un'attuazione insoddisfacente della Carta: a) le organizzazioni internazionali di datori di lavoro e di lavoratori di cui al paragrafo 2 dell'art. 27 della Carta; b) altre organizzazioni internazionali non governative dotate di uno statuto consultivo al Consiglio d'Europa e iscritte nella lista stabilita a tal fine dal Comitato governativo; c) le organizzazioni nazionali rappresentative di datori di lavoro e di lavoratori dipendenti dalla giurisdizione della Parte contraente chiamata in causa dal reclamo».
[20] Autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione in Italia sono stati dati con la legge del 28 agosto 1997, n. 298.
[21] Se non quello di dar conto «sui provvedimenti adottati per dare effetto alla raccomandazione del Comitato dei Ministri nel prossimo rapporto che invierà al Segretario generale, in applicazione dell'art. 21 della Carta» (art. 10 del protocollo). Sul punto Corte Cost. 8 novembre 2018, n. 194, in www.cortecostituzionale.it.
[22] Fontana, La Carta Sociale Europea e il diritto del lavoro oggi, in WP CSDLE "Massimo D'Antona".INT - 132/2016, p. 15, a giudizio del quale in alcuni casi ha ottenuto risultati più importanti della Corte EDU e della Corte di Giustizia dell'Unione Europea.
[23] Guiglia, Le prospettive della Carta Sociale europea, in Forum di Quaderni costituzionali, in www.forum-costituzionale.it.
[24] Così Corte. Cost. 13 giugno 2018, n. 120, in www.cortecostituzionale.it (sul divieto di associazione per i militari) e Corte Cost., 194/2018, cit., la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4 del d.lgs 4 marzo 2015, n. 23 (c.d. Jobs Act) sulla disciplina dell'indennità di licenziamento, per violazione, tra l'atro, dell'art. 24 della Carta Sociale Europea, il quale tutela il diritto ad un «congruo indennizzo» per i lavoratori licenziati. Sul punto Barone, La Corte Costituzionale e la Carta sociale europea (ovvero il giudice comune con tre cappelli e una sciarpa), in LDE, 2019, n. 2; Polizzi, Le norme della Carta sociale europea come parametro interposto di legittimità costituzionale alla luce delle sentenze Corte costituzionale nn. 120 e 194 del 2018, in www.federalismi.it, 20 febbraio 2019.
[25] La Carta, infatti, sancisce: il diritto alla sicurezza sociale previsto dall'art. 12 parte II della Carta Sociale Europea, il diritto ad eque condizioni di lavoro (art. 2 parte II) e a un'equa retribuzione (art. 4 parte II), i diritti sindacali previsti dall'art. 5 e il diritto di negoziazione collettiva (art. 6 parte II), il diritto ad una tutela in caso di licenziamento (art. 24 parte II) e il diritto alla dignità sul lavoro (art. 26 parte II).
[26] Fontana, op. ult. cit., p. 12 ss.
[27] Con le Decisioni del 23 giugno del 2012 (Complaint no. 65/2011) e del 23 maggio del 2012 (Complaint no. 66/2011), il Comitato ha evidenziato come l'intervento per decreto del Governo greco abbia portato i minimi salariali dei lavoratori con meno di 25 anni al di sotto della soglia di povertà: per il 2011 il salario minimo lordo, a seguito di una riduzione pari al 32%, ammontava ad € 510, mentre la soglia di povertà era stimata ad €580.
[28] Menegatti, op. cit., p. 20.
[29] Dagli anni ‘90 la fissazione dei minimi era il frutto di un accordo tra le parti sociali. Lo Stato non interveniva nei negoziati ma ne assicurava l'efficacia attraverso il riconoscimento di un automatico effetto erga omnes.
[30] Biasi, Il salario minimo legale nel "Jobs Act" promozione o svuotamento dell'azione contrattuale collettiva?, in ADL, 2015, p. 374; Delfino, Salario legale, contrattazione collettiva e concorrenza, Editoriale Scientifica, 2019, p. 185 ss.
[31] Fontana, Le politiche di austerity e i diritti sociali fondamentali, in WP CSDLE "Massimo D'Antona".INT - 140/2017, p. 19 ss.
[32] Eurostat, Minimum wages in the EU Member States ranged from € 286 to € 2071 per month in July 2019, in www.ec.europa.eu/eurostat/statistics, 31 luglio 2019, tale articolo dimostra come i livelli di salario minimo varino considerevolmente nei vari Paesi europei che vengono classificati in tre gruppi a seconda del salario minimo mensile lordo calcolato in riferimento al mese di luglio 2019.
In un primo gruppo sono collocati i Paesi i cui i salari minimi nazionali sono stati stimati inferiori a 500 € ossia: Bulgaria, Lettonia, Romania e Ungheria; i loro salari minimi nazionali andavano da 286 € in Bulgaria a 464 € in Ungheria.
Nel secondo gruppo sono classificati i Paesi in cui i salari minimi nazionali sono compresi tra i 500 € e i 1000 €. Gli Stati membri dell'UE in questo gruppo sono: Croazia (506 €), Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Estonia, Lituania, Portogallo, Grecia, Malta e la Slovenia (887 €).
Nel terzo gruppo trovano collocazione i Paesi in cui i salari minimi nazionali superavano i 1000 € al mese nel gennaio 2019. Gli Stati membri dell'UE in questo gruppo sono: Spagna (1050 €), Francia, Regno Unito, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Irlanda e Lussemburgo (2071 €).
Tutti i paesi candidati all'adesione all'UE mostrano salari minimi simili a quelli del primo gruppo, che variavano da 211 € in Albania a 422 € in Turchia.
Per gli Stati membri dell'UE con salari minimi nazionali al di fuori dell'area dell'euro (Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Ungheria, Polonia, Romania e già il Regno Unito), nonché i paesi candidati all'adesione dell'UE e gli Stati Uniti, il livello dei salari minimi e la classifica espressa in termini di euro è influenzata dai tassi di cambio utilizzati per convertire le valute nazionali in euro.
[33] Menegatti, op. cit., p. 23.
[34] L'articolo prevede infatti che per conseguire gli obiettivi di cui all'art. 151 TFUE, ossia «la promozione dell'occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l'emarginazione», l'Unione sostiene e completa l'azione degli Stati membri in una serie di settori tra cui «miglioramento, in particolare, dell'ambiente di lavoro, per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori; b) condizioni di lavoro; c) sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori...». Il par. 2 prevede, quindi, la possibilità per il Parlamento Europeo e il Consiglio di adottare misure destinate a incoraggiare la cooperazione tra Stati membri e adottare nei settori indicati, mediante direttive, le prescrizioni minime applicabili progressivamente. Tutto questo però non vale per la materia retributiva che viene espressamente esclusa nel par. 5: «Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle retribuzioni, -oltre che- al diritto di associazione, al diritto di sciopero né al diritto di serrata».
[35] Zoppoli L., La retribuzione, cit., p. 331.
[36] In tal senso Menegatti, op. cit., p. 24 ss.; Delfino, Salario legale, cit., p. 147 ss., il quale sottolinea che dalla disposizione del 153 par. 5 TFUE deve desumersi una generale lacuna di competenza, non limitata dal Titolo X -in cui l'articolo è collocato- che si occupa della Politica sociale. L'impossibilità di intervenire nella materia retributiva è necessaria per rispettare il riparto di competenze tra Unione Europea e Stati membri altrimenti ci si troverebbe dinanzi ad un «"riparto di competenze differenziato" che creerebbe un "disordine giuridico" e impedirebbe il funzionamento dell'apparato eurounitario». Questo sarebbe un paradosso non accettabile in quanto di permetterebbe la regolamentazione solo in settori come quello finanziario.
Di diverso avviso Occhino, Minimi salariali e Comunità Europea, in DL, 2001, I, p. 181 ss., l'autrice riconosce una competenza in materia di retribuzione limitatamente ai minimi salariali interpretando in modo restrittivo il concetto di retribuzione di cui all'art. 153 par. 5 del TFUE, considerandolo non comprensivo del tema del salario minimo che sarebbe riferibile agli obiettivi di competenza dell'Unione come la protezione sociale adeguata.
[37] La Corte di Giustizia, pur forzando la lacuna di competenza, vede nel 153 TFUE un ostacolo all'armonizzazione, in tal senso CGE, 15 aprile 2008, C-155/10, caso Impact, in www.eur-lex.europa.eu; CGE, 13 settembre 2007, C-307/05, caso Del Cerro Alonso, in www.curia.europa.eu.
[38] Strozzi, Mastroianni, Diritto dell'Unione Europea, Giappichelli, 2016, p. 72 ss.
[39] Menegatti, op. cit., p. 24.
[40] Delfino, Limiti e prospettive della contrattazione collettiva europea nel diritto primario dell'Unione, in Zoppoli L., Zoppoli A., Delfino (a cura di), Una nuova Costituzione per il sistema delle relazioni sindacali?, Editoriale Scientifica, 2017, pp. 76 e 77.
[41] Strozzi, Mastroianni, op. cit., p. 256 ss.
[42] Così Delfino, Salario legale, cit., pp. 151 e 152; Hunt, Fair and Just Working Conditions, in Hervey, Kenner (a cura di), Economic and Social Rights under UE Charter of Foundamentals Rights: A Legal Perspective, Oxford, 2003, p. 44; Ales, Article 31 CFREU, in Ales, Bell, Deinert, Robin-Oliver (a cura di), International and European Labour Law, Baden-Baden, Munchen, 2018, p. 1207 ss.
[43] Così, ad esempio, le conclusioni del Consiglio europeo (24/25 marzo 2011), allegato I sul Patto Euro Plus che mira a stimolare la competitività rapportandone i progressi in funzione «dell'evoluzione delle retribuzioni e della produttività e delle esigenze di adeguamento della competitività. Per stabilire se l'evoluzione delle retribuzioni sia in linea con quella della produttività, si monitoreranno in un dato lasso di tempo i costi unitari del lavoro raffrontandoli con l'evoluzione in altri paesi della zona euro e nei principali partner commerciali con economie simili. Relativamente a ciascun paese i costi unitari del lavoro saranno valutati per l'economia nel suo complesso e per ciascun grande comparto [...] aumenti ingenti e mantenuti nel tempo possono erodere la competitività, soprattutto se associati ad un disavanzo corrente in aumento e a quote di mercato in calo per le esportazioni» per cui gli Stati dovranno assicurare «misure volte ad assicurare un'evoluzione dei costi in linea con la produttività», «riesaminare gli accordi salariali e laddove necessario, il grado di accentramento del processo negoziale e i meccanismi d'indicizzazione, nel rispetto dell'autonomia delle parti sociali nella negoziazione dei contratti collettivi».
[44] In Grecia a seguito delle «Recommentations Expert Group for the Review of Greek Labour Market Istitutions», presentate il 27 settembre 2016, in virtù delle necessità di rispettare le indicazioni delle istituzioni europee, e quindi ridurre i salari reali e nominali per dar luogo a una svalutazione all'interno dell'area Euro, è stato necessario fissare per legge il salario minimo. In precedenza, il salario veniva fissato da una fonte contrattuale intersettoriale, ossia il National General Collective Labour Agreement (EGSSE). L'intervento dell'ordinamento statale era limitato al riconoscimento dell'efficacia erga omnes dei minimi salariali da esso previsti. Sul punto Delfino, Salario legale, cit., p. 155.
[45] Zoppoli L., op. ult. cit., pp. 331 e 332.
[46] Risoluzione del Parlamento Europeo, 15 novembre 2007, n. 2104 (INI).
[47] Risoluzione del Parlamento Europeo, 9 ottobre 2008, n. 2034 (INI).
[48] Punto 43 della Risoluzione n. 2034 del 2008.
[49] All'art. 14 prevede infatti che «affinché i principi e i diritti siano giuridicamente vincolanti, è prima necessario adottare misure specifiche o atti normativi al livello appropriato».
[50] In tal senso Ales, Il modello sociale europeo dopo la crisi: una mutazione genetica?, in DLM, 2017, p. 483.
[51] Ratti, Il Pilastro europeo per i diritti sociali nel processo di rifondazione dell'Europa sociale, in Chiaromonte, Ferrara (a cura di), Bisogni sociali e tecniche di tutela giuslavoristica questioni aperte e prospettive future, FrancoAngeli, 2018, p. 24.
[52] Delfino, Salario legale, cit., p. 156.
[53] Su cui Allamprese, Borrelli, Orlandini, La nuova direttiva sul distacco transnazionale dei lavoratori, in RGL, 2019, I, p. 133 ss.
[54] Come originariamente previsto dall' art. 3 par. 1 lett. c) della direttiva 96/71/CE.
[55] Art. 3, par. 1, lett. c) così come modificato dalla direttiva 2018/957.
[56] Nuovo art. 3, par. 1.
[57] Delfino, Salario legale, cit., p. 157 e 158.
[58] Proposal for a directive of the european parliament and of the council on adequate minimum wages in the european union, del 28.10.2020 in eur-lex.europa.eu.
[59] L'articolo 1, co. 3, della proposta di direttiva, infatti, recita: «Nessuna disposizione della presente direttiva può essere interpretata in modo tale da imporre agli Stati membri nei quali la determinazione dei salari sia garantita esclusivamente mediante contratti collettivi l'obbligo di introdurre un salario minimo legale o di rendere i contratti collettivi universalmente applicabili».
[60] Vd. art. 4 della proposta.
[61] La Corte in alcune sue pronunce (es. CGE, 10 maggio 2011C-147/08, caso Romer e Corte Giust., in www.eur-lex.europa.eu; CGE, 1 luglio 2010, C-471/08, caso Parviainen, in www.eur-lex.europa.eu) ha affermato la liceità di tali interventi, i quali non risultano lesivi dell'art. 153 TFUE.
[62] Menegatti, op. cit., p. 31.
[63] Cosi Ricci, La retribuzione in tempi di crisi: diritto sociale fondamentale o variabile dipendente?, in WP CSDLE "Massimo D'Antona".INT - 113/2014. L'autore spiega che nel trentennio a seguito del secondo dopoguerra, ossia nel contesto dell'espansione garantista delle tutele del lavoro subordinato parallelo al boom dell'economia, il diritto alla retribuzione ha assunto il rango di diritto sociale «incondizionato» ed è così stato consacrato dai Bill of Rights internazionali e da alcune Carte Costituzionali. Le retribuzioni, su cui si basano i modelli sociali nazionali, sono da considerare «variabile indipendente dalle dinamiche e dagli andamenti dei processi economici o dei singoli settori produttivi» nonché «dalla produttività e dall'efficienza dei servizi pubblici, come segnala una crescita incontrollata e irrazionale delle retribuzioni nella pubblica amministrazione, anche a causa degli interessi clientelari che in tal modo si intendevano soddisfare». Dagli anni 80 si seguirà, invece, la strategia della «moderazione salariale». In Italia la fine dell'epoca caratterizzata della retribuzione come "variabile indipendente" verrà annunciata dal sindacalista Luciano Lama in un'intervista al quotidiano La Repubblica rilasciata il 24 gennaio 1978.
[64] Ricci, La retribuzione costituzionalmente adeguata e il dibattito sul diritto al salario minimo, in LD, 2011, p. 639 ss.
[65] Menegatti, op. cit., p. 31; Ricci, La retribuzione in tempi di crisi, cit., p. 10.
[66] Supra, par. 1.1
[67] É un insieme di cinque regolamenti comunitari (regolamento n. 1177/2011 dell'8 novembre 2011, n. 1173/2011, n. 1174/2011, n. 1175/2011 e n. 1176/2011 del 16 novembre 2011) e una direttiva (n. 2011/85/UE dell'8 novembre 2011) che hanno introdotto, insieme al cd."two-pack" ( che si compone di due regolamenti: il n. 473/2013 e il n. 472/2013 intervenuti successivamente all'entrata in vigore nel gennaio 2013 Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell'Unione economica e monetaria, il c.d. Fiscal Compact, siglato a Bruxelles il 2 marzo 2012 da 25 Stati membri dell'Unione seppur non rientrante nell'ordinamento europeo in quanto trattato intergovernativo), una più rigorosa applicazione del Patto di stabilità e crescita ovvero i Regolamenti nn. 1466/97 e 1467/97. Fonte: Ufficio parlmentare di bilancio, L'inserimento del Fiscal Compact nel diritto UE, in www.rivistacorteconti.it, 4 agosto 2017.
[68] Menegatti, op. cit., p. 31 ss.
[69]Commissione Europea, The EU's economic governance explained, in www.ec.europa.eu, 16 novembre 2016. L'introduzione del Semestre Europeo a partire dal 2016 ha permesso un coordinamento delle politiche economiche nell'Unione permettendo un confronto tra i Paesi Membri che permetta di calibrare le politiche nel secondo semestre dell'anno tenendo conto dell'andamento nel primo. Importante è il ruolo che la Commissione svolge nell'ambito del semestre in quanto effettua un'analisi dettagliata dei piani di ciascun paese per quanto riguarda le riforme di bilancio, macroeconomiche e strutturali per poi rivolgere ai governi dell'Unione delle raccomandazioni specifiche per i successivi 12-18 mesi.
[70] Ricci, op. cit., p. 25.
[71] Zangrillo, Distacco UE: nuove regole per le aziende multinazionali, in www.ipsoa.it, 27 luglio 2018, p. 1 ss.
[72] Tale da includere «tutti gli elementi costitutivi della retribuzione resi obbligatori da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali, da contratti collettivi o da arbitrati che sono stati dichiarati di applicazione generale nello Stato membro in questione» nonché le «indennità specifiche per il distacco [...] purché non siano versate a titolo di rimborso delle spese effettivamente sostenute a causa del distacco» (art. 3).
[73] Carosielli, Qualche considerazione sulla revisione della direttiva 96/71/CE sul distacco dei lavoratori, in www.bollettinoadapt.it, n. 37, 6 novembre 2017.
[74] Zangrillo, op. cit., p. 1 ss. Amplius Izzi, Lavoro negli appalti e dumping salariale, Giappichelli, 2018, p. 119 ss.
[75] CGE, Del Cerro Alonso, cit., punti 40 e 41.
[76] Inoltre, in tal senso CGE, 12 novembre 1996, causa Regno Unito/Consiglio, C‑84/94, in www.curia.europa.eu., occupandosi della competenza del Consiglio ad adottare -sul fondamento dell'art. 118 A del Trattato CE (gli artt. 117‑120 del Trattato CE sono stati sostituiti dagli artt. 136 CE‑143 CE)- la direttiva del Consiglio 23 novembre 1993, 93/104/CE, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, segnatamente l'art. 7 di tale direttiva, relativo alla concessione di ferie annuali retribuite di quattro settimane.
[77] CGE, caso Impact, cit., punto 214.
[78] In tal senso CGE, 10 maggio 2011, cit.; CGE, 1 luglio 2010, cit.
[79] Delfino, Salario legale, cit., p. 170 ss.
[80] CGE, 17 novembre 2015, C115/14, caso RegioPost GmbH & Co. KG c. Stadt, in www.curia.europa.eu.
[81] CGE, 18 settembre 2014, C-549/13, caso Bundesdruckerei GmbH c. Stadt Dortmund, in www.curia.europa.eu.
[82] Ivi, p. 171.
[83] Ossia CGE, 11 dicembre 2007, C-438/05, caso Viking, in www.eur-lex.europa.eu; CGE, 18 dicembre 2007, C-341/05, caso Laval, in www.eur-lex.europa.eu; CGE, 3 aprile 2008, C346/06, caso Rüffert, in www.eur-lex.europa.eu; CGE, 19 giugno 2008, C-319/06, Commissione c. Lussemburgo, in www.eur-lex.europa.eu.
[84] Brancati, Il bilanciamento tra diritti sociali e libertà economiche in Europa. Un'analisi di alcuni importanti casi giurisprudenziali, in www.cortecostituzionale.it, gennaio 2015.
[85] CGE, 18 luglio 2013, C-136/12, caso Consiglio nazionale dei geologi c. Agcom, in www.curia.europa.eu.
[86] CGE, 8 dicembre 2014, C-413/13, caso FNV Kunsten Informatie en Media c. Staat der Nederlanden, in www.curia.europa.eu.
[87] Cannizzaro, Pace, Le politiche di concorrenza, in Strozzi (a cura di), Diritto dell'Unione Europea. Parte speciale. Estratto, Giappichelli, 2017, p. 329.
[88] CGE, 16 novembre 1999, C-22/98, caso Becu, in www.curia.europa.eu, punto 26.
[89] Pallini, Il rapporto problematico tra diritto della concorrenza e autonomia collettiva nell'ordinamento comunitario e nazionale, in RIDL, 2000, II, p. 240 ss.; Forlivesi, Interessi collettivi e rappresentanza dei lavoratori del web, in Tullini (a cura di), Web e Lavoro. Profili evolutivi e di tutela, Giappichelli, 2017, p. 185.
[90] Delfino, Salario legale, cit., pp. 166 e 167.
[91] CGE, FNV Kunsten Informatie, cit., punto 21.
[92] CGE, FNV Kunsten Informatie, cit., punto 28.
[93] CGE, FNV Kunsten Informatie, cit. punto 42.
[94] Delfino, op. ult. cit., pp. 167 e 168.
[95] CGE, Consiglio nazionale dei geologi, cit., punto 42.
[96] Su cui Zoppoli A., La collaborazione eterorganizzata: fattispecie e disciplina, in DLM, 2016, p. 33 ss.
[97] Tale disposizione è stata modificata dal d.l. 3 settembre 2019, n. 101, convertito con modificazioni dalla l. 2 novembre 2019, n. 128..
[98] Nuzzo, Il lavoro personale coordinato e continuativo tra riforme e prospettive di tutela, in WP CSDLE "Massimo D'Antona".IT - 280/2015, p. 15.
[99] Delfino, op. ult. cit., p. 169.
[100] Ivi, p. 168 e 169.
[101] Oil, Global wage report 2008/09. Minimum wage and collective bargaining. Towards policy coherence, 2009.
[102] Marocco, Il salario minimo legale nel prisma europeo: prospettive per l'Italia, in DLRI, 2017, p. 338.
[103] Leonardi, Salario minimo e ruolo del sindacato: il quadro europeo fra legge e contrattazione, in LD, 2014, p. 188 ss.
[104] Le peculiarità del modello legale di fissazione dei minimi salariali nel Regno Unito meritano qualche considerazione sia per le sue risalenti origini, in particolare al Trade Board Act del 1909 che è stato il primo intervento legislativo sui minimi salariali nell'era moderna, sia per il suo peculiare meccanismo di fissazione. I Trade Boards (rinominati dal 1945 Wage Council) erano organi tripartiti che includevano parti sociali e membri indipendenti. A seguito della loro abolizione nel 1993, con eccezione per il settore agricolo, nel 1998 venne promulgato il National Mimimun Wage Act introducendo così per la prima volta nel Regno Unito un salario minimo legale in forma (quasi) universale. Le regole vigenti hanno come destinatari non solo i lavoratori subordinati ma tutta la categoria dei "worker" che include, oltre ai subordinati, anche l'ambito del nostro lavoro parasubordinato. Il legislatore del Regno Unito, inoltre, non ha previsto un'unica soglia di salario minimo, soluzione più diffusa nell'ambito europeo, ma ha differenziato le tutele a seconda dell'età: la soglia "Nationale Living Wage" (fissata dal Governo tenendo conto delle valutazioni non vincolanti della Low Pay Commission) spetta ai lavoratori con più di 25 anni, mentre per gli apprendisti l'importo sarà legato all'età. Menegatti, op. cit., p. 38 ss.
[105] Eurofound, Statutory minimum wages 2018, in eurofound.europa.eu, p. 25; Biasi, op. cit., p. 372. ss.
[106] Nella repubblica di Cipro un salario minimo legale esiste ma è limitato soltanto ad alcuni settori. Delfino, Salario legale, cit., p. 24.
[107] Menegatti, op. cit., p. 37; Leonardi, op. cit., p. 189, l'autore sottolinea l'ulteriore caratteristica dei sistemi italiano, danese e svedese che sono privi, oltre al salario minimo per legge, anche di una procedura di estensione erga omnes dell'efficacia soggettiva delle previsioni della contrattazione collettiva.
[108] Delfino, Salario legale, cit., p. 23 ss.
[109] Ibidem.
[110] Ivi, p. 181.
[111] Code du Travail, art. L 3231-1: «Les dispositions du présent chapitre sont applicables, outre aux employeurs et salariés mentionnés à l'article L. 3211-1, au personnel des établissements publics à caractère industriel et commercial et au personnel de droit privé des établissements publics administratifs».
[112] I giovani studenti con contratti di apprendistato ricevono un salario che può variare tra il 25% e il 78% dello SMIC in funzione dell'età e del numero di anni di lavoro per il datore di lavoro, Ocse, Minimum wages, in stats.oecd.org, 2018.
[113] La riduzione è del 20% per under 17 e del 10% per quelli di età compresa tra i 17 e 18 anni.
[114] Code du Travail, art. L 3231-5.
[115] Previo parere della Commission national de la négociation collective, reso sulla base di un rapporto redatto da un gruppo di esperti indipendenti. Il parere fornito dalla Commissione nazionale tripartita, in cui vengono rappresentate le parti sociali, si ritiene che abbia la valenza di una mera formalità. In tal senso Menegatti, op. cit., p. 49.
[116] Ivi, pp. 48 e 49.
[117] In tal senso Despax, Rojot, Laborde, Labour law in France, The Haugue, 2011, p. 124.
[118] Décret n° 2021-1741 del 22 dicembre 2021.
[119] La misura è stata anche una risposta da parte del Presidente della Repubblica Francese Macron alle proteste dei c.d. gilets jaunes, i quali proprio dell'aumento del salario minimo avevano fatto una dei loro punti programmatici; Ardito, Janiri, Cosa vogliono i gilet gialli e come risponde Macron, in lavoce.info, 14 dicembre 2018.
[120] La dottrina ne ha sostenuto l'intraducibilità in virtù di una non perfetta corrispondenza col termine categoria. Ballestrero, Flexicurité à la française: l'accordo di gennaio 2008 sul mercato del lavoro, in DLM, 2008, p. 241.
[121] Delfino, Salario legale, cit., pp. 182 e 183.
[122] Despax, Rojot, Laborde, op. cit., p. 125.
[123] Menegatti, op. cit., p. 50.
[124] Approvata l'11 agosto 2014 e inserita in un più ampio pacchetto di leggi a sostegno dell'autonomia collettiva.
[125] Nel 2013, solo 506 dei 68 mila contratti collettivi registrati risultano dichiarati efficaci erga omnes. Tommasetti, I sistemi di relazioni industriali in Francia, Germania, Italia e Spagna, in www.bollettinoadapt.it, 2014.
[126] Menegatti, op. cit., pp. 52 e 53.
[127] Corti, La nuova legge sul salario minimo in Germania: declino o rinascita della contrattazione collettiva?, in DLM, p. 641 ss.
[128] Fonte: Adapt, sulla base dei dati ICTWSS Database, AIAS, 2013.
[129] Come risulta da Eurofound, Pay in Europe in the 21st century Dublin, 2014, p. 112.
[130] Bosh, Weinkopf, EC project - Minimum Wage Systems and Changing Industrial Relations in Europe, National Report Germany, in www.iaq.uni-due.de, 2010, p. 2 ss., dove si evidenzia che il 40% dei dipendenti microimprese percepivano una retribuzione oraria inferiore agli 8.50 €, mentre nelle grandi imprese con più di 2000 dipendenti la percentuale scendeva al 7%.
[131] Come riportato anche in www.mindestlohn-kommission.de.
[132] Delfino Salario legale, cit., p. 179; Menegatti, op. cit., p. 56.
[133] Delfino, Salario legale, cit., p. 180.
[134] Corti, op. cit., p. 637 ss.
[135] Delfino, Salario legale, cit., p. 181.
[136] All'art. 3 della direttiva si prevede, infatti, che gli standards di trattamento a cui i prestatori di servizi stranieri devono uniformarsi possano essere stabiliti da «disposizioni legislative, regolamentati o amministrative», ma anche, in aggiunta o in alternativa, «da contratti collettivi o da arbitrati dichiarati di applicazione generale dallo Stato in questione» o, in mancanza, «dai contratti collettivi in genere applicabili» e/o «conclusi dalle organizzazioni delle parti sociali più rappresentative sul piano nazionale e che sono applicati in tutto il territorio nazionale».