Storia Economica dell'etą contempor
Paola Basso
A Napoli la nascita del Corpo di ponti e strade e dell'annessa Scuola di applicazione[1], la prima attivata in Italia, aprì la stagione in cui si delineò un nuovo modello d'ingegnere, dalla moderna cultura universitaria certificata da rigorosi esami, chiamato ad operare in una realtà in continua evoluzione e ad assumersi la responsabilità di fornire risposte concrete ai bisogni degli individui e della società.
Attraverso un processo di formazione originale che combinava i principi matematici della scienza con l'estro creativo dell'arte, la Scuola mise in discussione una tradizione ancora basata sull'apprendistato e la pratica e creò le condizioni affinché la cultura scientifica delle grandi Ècoles francesi potesse diffondersi e radicarsi nel Regno. Nella Scuola l'alunno maturava le necessarie condizioni per accedere al Corpo degli ingegneri e quindi entrare nei ranghi dello Stato, in tal modo il reclutamento veniva sottratto a criteri soggettivi ed arbitrari, e si affermava il sistema meritocratico che garantiva solide opportunità di carriera ai tecnici più qualificati.
La Scuola napoletana costituì un laboratorio sperimentale dove si formò l'élite degli ingegneri meridionali, quali Benedetto Lopez Suarez, destinato a raggiungere la carica di massimo responsabile di ponti e strade; Luigi Giura, ideatore e realizzatore del primo ponte in ferro in Italia; Antonio Maiuri, stretto collaboratore di Carlo Afàn de Rivera, direttore dei lavori del porto e del lazzaretto di Nisida e di apprezzate opere di bonifica nelle province di Napoli e Caserta; Vincenzo Antonio Rossi, progettista e direttore delle più importanti opere pubbliche in corso di esecuzione nel Regno tra gli anni Trenta e Quaranta, privilegiando i lavori relativi all'idraulica come la bonifica del bacino inferiore sinistro del Volturno, utilizzando il metodo della «colmata»; Gaetano Bruno, autore del piano di risanamento e ampliamento della città di Napoli del 1885; Giuseppe Damiano Almeyda, artefice della nuova immagine di Palermo, suoi tra l'altro il bellissimo Politeama in stile neoclassico e l'Archivio Comunale, una vera e propria macchina architettonica; Guglielmo Melisurgo il cui nome è legato all'esordio dell'elettricità in Campania e all'organizzazione delle prime aziende elettriche cittadine.
Nel nuovo stato unitario la più antica Scuola di applicazione d'Italia, cessò di essere serbatoio esclusivo per il Corpo degli ingegneri del Regno, trasformandosi in un istituto «speciale» di formazione per professionisti votati alle più diverse destinazioni, pubbliche e private.
Nel febbraio del 1861 essa prese il nome di Scuola d'applicazione degli ingegneri del Genio civile, in seguito alla riorganizzazione del Corpo di ponti e strade napoletano sul modello istituzionale sabaudo del Genio civile.
Nel luglio del 1863 la Scuola d'applicazione degli ingegneri del Genio civile di Napoli fu adeguata al modello torinese, prendendo il nome di Scuola d'applicazione per gl'ingegneri secondo la denominazione comune a tutte le scuole politecniche civili d'Italia e sotto la dipendenza dal Ministero della pubblica istruzione, non più dei Lavori pubblici. Si trattò, come ha scritto Russo, di «qualcosa di più di una semplice riforma perché, dopo circa mezzo secolo, la Scuola d'applicazione veniva staccata da quel Corpo d'ingegneri le cui energie essa alimentava con i suoi migliori alunni e dalla cui attività ed esperienza riceveva i più preziosi insegnamenti»[2]. Furono questi anni difficili, in cui la Scuola faticò a trovare una propria identità. Difficoltà che incontrarono anche le altre Scuole di applicazioni del Regno, perché se nelle intenzioni, il neonato Stato unitario si pose il problema di adeguare le strutture formative allo sviluppo tecnologico contemporaneo e a quanto si stava facendo in Europa in fatto di istruzione, nei fatti l'esiguità delle risorse poneva limitazioni molto pesanti. In Sicilia, l'atto istitutivo di una scuola d'ingegneria a Palermo nel 1860 divenne effettivo solo nel 1866, mentre a Bologna il corso di costruzioni fu per anni libero, tenuto cioè da un professore non pagato. La mancanza di attrezzature per le esercitazioni pratiche era il problema più urgente. E del resto, pure nelle scuole fornite di apparecchiature e gabinetti scientifici, le attrezzature sperimentali se valevano per la didattica e consentivano agli allievi la verifica sperimentale delle nozioni teoriche apprese erano insufficienti per l'attività di ricerca, che non a caso restò a livelli molto modesti[3]. Altro problema era il mancato coordinamento fra gli insegnamenti fisico-matematico del biennio propedeutico affidato alle università, e gli insegnamenti delle scuole di applicazioni che spesso venivano ad essere quasi un duplicato. Solo l'Istituto tecnico superiore di Milano, ispirato sin dall'inizio al modello dei politecnici tedeschi svincolati dagli ordinamenti universitari, poté, grazie al suo direttore Francesco Brioschi e al sostegno finanziario del Comune e della Società d'Incoraggiamento, acquisire piena autonomia nel 1875 con la creazione del biennio interno destinato «a completare l'istruzione scientifico-letteraria e artistica dei giovani che hanno compiuto il corso della sezione fisico- matematica negli Istituti Tecnici»[4]. A Napoli e a Torino il passaggio attraverso l'università restò obbligato, fino alla fondazione dei politecnici, nel 1906.
Il grado ancora modesto dello sviluppo economico italiano e gli orientamenti politico culturali della classe dirigente resero difficile introdurre differenziazioni di un certo rilievo nel percorso formativo degli ingegneri, che non a caso in quasi tutte le scuole rimase finalizzato alla preparazione degli ingegneri civili. A Napoli una sezione industriale fu aperta solo nel 1901. Del resto anche a Milano, dove la diversificazione della preparazione degli ingegneri era stata il motivo ispiratore e il tratto distintivo del locale politecnico rispetto alle altre scuole d'ingegneria italiane, fu effettivamente realizzato con molto cautela e in forma alquanto attenuata, in quanto la realtà produttiva italiana non consentiva un assorbimento sicuro e stabile di tecnici fortemente specializzati[5].
Ma era ormai chiaro quanto importante fosse il ruolo dell'alta tecnologia nel processo di industrializzazione, e i tanti esempi offerti dalle istituzioni europee stavano lì a dimostrarlo. Il sorpasso che paesi quali la Germania, la Francia, il Belgio, la Svizzera effettuarono ai danni dell'Inghilterra in molti settori industriali, come è testimoniato dall'Esposizione internazionale di Parigi del 1867, dove la tecnologia inglese fu ampiamente superata da quella francese e tedesca, era strettamente legato allo sviluppo di scuole a carattere tecnico, scientifico e professionale.
E fu proprio dopo l'esposizione parigina del 1867 che le voci dell'industrialismo italiano si fecero più decise nel sottolineare il ruolo delle conoscenze e delle competenze professionali per un paese come l'Italia. Tanto più che, come aveva mostrato la guerra del 1866 con l'Austria, sia la capacità organizzativa su larga scala che l'ammodernamento tecnologico e produttivo erano decisivi anche dal punto di vista politico e militare. Le linee ferroviarie, i trafori, i ponti, le attrezzature portuali, la rete telegrafica e postale, la marineria a vapore ecc., necessari allo sviluppo economico erano anche indispensabili per l'unificazione effettiva della penisola. Ma il prolungato indebitamento statale privò le nuove istituzioni di mezzi adeguati, obbligandole a una serie di indesiderati adattamenti sul piano dell'organizzazione degli studi, tanto che tra gli stessi fautori della cultura tecnica non mancava chi ritenesse che fossero inutili otto scuole di ingegneria auspicandone la riduzione a vantaggio delle tre principali, di Torino, Milano e Napoli, che avevano bisogno di aumentare le cattedre e le attrezzature tecnologiche per non distaccarsi ulteriormente da quelle europee[6].
La trasformata R. Scuola d'applicazione per gl'ingegneri di Napoli fu retta dal 1863 al 1881 da Fortunato Padula, «il quale conoscendo per lunga esperienza ciò che occorreva ad un grande Istituto, inteso alla istruzione teorica, e più alla pratica, non solo per gli ingegneri del Genio Civile, ma per tutti gl'ingegneri ed architetti civili, seppe, con rari accorgimenti riordinare la Scuola d'Applicazione in Napoli, ed avviarla alle prospere condizioni presenti»[7].
In una relazione inviata al consiglio comunale per sollecitare un finanziamento emerge il momento delicato in cui si trovò ad operare il nuovo direttore. Il trasferimento della nuova sede nell'antico monastero di Donnaromita rese necessari radicali lavori di ristrutturazione per adattare l'edificio ad ospitare aule e laboratori, ma i fondi messi a disposizione dal governo si rivelarono insufficienti[8]. La discussione, in seno al consiglio comunale, se spettasse allo Stato o al Comune intervenire per finanziare i lavori, fu lunga, ma alla fine fu votato lo stanziamento nel bilancio di ventimila lire come «quota di sottoscrizione da promuovere tra le sedici province meridionali». Venti anni dopo i lavori erano ancora in corso e solo verso la fine dell'ultimo decennio del secolo si potevano considerare ultimati. Essi consentirono di poter disporre a pianterreno della sala per Macchine, un'aula per le lezioni del primo anno, il gabinetto di Costruzioni diverse, il gabinetto di Ferrovie, l'aula ed il laboratorio di Chimica, la sala di Disegno, il laboratorio di Mineralogia e Geologia; al primo piano furono sistemate la Direzione , la Biblioteca, fornita di oltre 7500 volumi, un'aula per le lezioni del secondo anno e altri uffici e laboratori; al secondo piano la sala di Disegno, la sala per le lezioni del terzo anno ed il gabinetto per le applicazioni di Geometria descrittiva[9].
Un assetto definitivo agli ordinamenti delle regie scuole d'applicazione d'Italia, fu dato dal Regolamentato generale dell'8 ottobre 1876. Gli allievi, con il nuovo ordinamento degli studi, dovevano frequentare inizialmente il primo biennio della Facoltà di matematica dell'Università e una volta superato l'esame conclusivo venivano ammessi al corso triennale della Scuola d'applicazione.
Il primo anno comune ai due indirizzi, ingegneria civile e architettura, prevedeva i seguenti insegnamenti: meccanica razionale; geodesia teoretica; statica grafica; applicazioni della geometria descrittiva; chimica docimastica. Nel secondo e terzo anno gli aspiranti ingegneri dovevano studiare: mineralogia e geologia applicata ai materiali da costruzione; geometria pratica; meccanica applicata alle macchine; meccanica applicata alle costruzioni; idraulica pratica; macchine idrauliche; macchine agricole; macchine termiche; architettura tecnica; costruzioni civili e rurali; fondazioni; ponti in muratura, in legno ed in ferro; strade ordinarie; strade ferrate e le gallerie; le costruzioni idrauliche ed i lavori marittimi; idraulica agricola e le bonificazioni; economia rurale ed estimo rurale; fisica tecnica; diritto. Il curriculum di studi dei futuri architetti era più «leggero» e comprendeva nel biennio conclusivo: mineralogia e geologia applicata ai materiali da costruzione; geometria pratica; meccanica applicata alle costruzioni; architettura tecnica; costruzioni civili e rurali; economia rurale ed estimo rurale; fisica tecnica; diritto. Gli studenti di architettura erano inoltre obbligati a seguire gli studi delle classi di architettura presso le locali Accademie e Istituti di belle arti[10]. Anche la Scuola di applicazione di Napoli coinvolse, per la formazione della categoria specifica degli architetti, l'Istituto di belle arti, la vecchia Accademia fondata da Carlo di Borbone. Tale coinvolgimento sembrava dettato dalla volontà di accrescere con nozioni artistiche la cultura generale degli architetti, ma non si trattò, però, di una vera integrazione fra i dati applicativi di matrice tecnico-scientifica e quelli di matrice artistica. In realtà tra Scuola e Accademia vi era un'antica rivalità, destinata ad accrescersi con l'introduzione del regio decreto del 1885 che autorizzava la scuola di architettura dell'Istituto di belli arti, come già a Roma e a Firenze, a rilasciare «diplomi di approvazione» per l'esercizio della professione di architetto. Cinque anni dopo un provvedimento legislativo ristabiliva il monopolio delle scuole di applicazione per gli ingegneri anche per chi volesse esercitare la professione di architetto, sopprimendo i corsi inferiori e superiori di architettura esistenti negli istituti di belle arti di Roma, Firenze e Napoli.
Nel 1881 moriva il professore Padula e gli succedeva nella carica di direttore Ambrogio Mendia. Allievo della Scuola di ponti e strade, dove era entrato il 14 marzo 1813, all'età di sedici anni[11], vi fece ritorno nel 1837 come professore, prima di Geometria descrittiva e Meccanica applicata, poi con la specializzazione degli insegnamenti, passò alla cattedra di Costruzioni civili e stradali. Confluito il Corpo degli ingegneri di ponti e strade nell'unico Corpo italiano del Genio civile, Mendia veniva nominato ingegnere capo di 1ª classe, carica alla quale poi rinunziò per mantenere la cattedra, quando entrò in vigore la legge sul cumulo degli impieghi. Tecnico competente e instancabile professionista, lavorò alla bonifica del lago di Agnano e alla riapertura della grotta di Seiano, tra Posillipo e Cordoglio, nonché ad importanti strade come la via da Dugenta a Frasso Telesino e la nazionale da Val Fortore a Baselice, suo il progetto per la condotta delle acque potabili del torrente Orciuoli alla Città di Napoli, ed il tracciato della ferrovia Napoli-Benevento-Foggia. Partecipò, intorno al 1884, in qualità di componente del Consiglio tecnico municipale, alla faticosa elaborazione del progetto per una nuova fognatura prendendo posizione contro il progetto del Comune predisposto dall'ingegnere Gaetano Bruno e sostenuto dall'ingegnere Guglielmo Melisurgo[12]. Nel ruolo di direttore, Mendia non si limitò ad una gestione e ad un controllo puro e semplice dell'attività degli altri docenti, ma ebbe un ruolo decisivo a tutti i livelli negli orientamenti didattici della Scuola. Su sua proposta il Consiglio della Scuola compilò il nuovo regolamento interno che fu approvato dal Ministro il 12 settembre 1882. Secondo tale regolamento, ai fini degli insegnamenti orali e pratici, l'anno scolastico veniva diviso in due periodi, dal 21 novembre al 31 maggio per le lezioni orali, dal 1 giugno al 31 settembre per le esercitazioni pratiche e gli esami. Anche il piano di studi subiva leggere variazioni con lo spostamento dell'insegnamento di Mineralogia e Geologia al primo anno e l'introduzione di discipline come Celerimensura e Ferrovie e materiale fisso e mobile con disegni corrispondenti[13].
L'interesse e l'impegno degli uomini della Scuola di applicazione di Napoli a favore di una cultura industriale moderna portò nel 1887 a istituire una «Scuola di Elettrotecnica». L'avvento dell'elettrotecnica nell'ultimo ventennio dell'Ottocento, determinò, come ha giustamente osservato Lacaita, una cesura rispetto al passato nel processo di modernizzazione del paese e di conseguenza nella formazione degli ingegneri[14]. La necessità di raccordare la preparazione dei tecnici ai progressi scientifico-tecnici fu avvertita un po' in tutte le scuole italiane di applicazione, dove però la mancanza di adeguate dotazioni finanziarie non permise di creare specifici corsi di elettrotecnica, per cui l'elettricità e i suoi molteplici impieghi erano trattati nel corso di Fisica tecnica insieme a tanti altri argomenti. A Milano, nel 1886, l'industriale Carlo Erba mise a disposizione ben 400.000 lire per la creazione di una scuola di elettrotecnica volta a sviluppare quegli studi sull'elettricità che il Politecnico aveva avviato al suo interno sin dal 1883, contemporaneamente alla creazione della centrale termoelettrica di Santa Radegonda realizzata da Giuseppe Colombo[15]. Nello stesso anno entrava in funzione a Torino la scuola speciale di elettrotecnica diretta da Galileo Ferraris, che l'anno prima aveva scoperto il campo magnetico rotante, cioè il primo motore a corrente alternata. Il dispositivo fu utilizzato anche come contatore di energia elettrica. Napoli, che vantava una lunga tradizione di studi e sperimentazioni in questo campo, ricordiamo l'esperimento di illuminazione elettrica del 1852, poteva contare su scienziati della statura di Achille Sannia e Guido Grassi, ideatori dell'istituto elettrotecnico partenopeo. Ad esso potevano accedervi gli alunni del terzo anno della Scuola, gli ingegneri laureati e coloro che avessero una istruzione preparatoria equipollente, come gli ufficiali del Genio, d'Artiglieria, della Marina. La scuola che riscosse subito un buon successo, tanto che già nel 1888 veniva seguita da undici allievi, saliti a diciotto l'anno seguente, divenne la vera e propria fucina dei quadri «elettrici» meridionali. I corsi si giovarono, dopo il trasferimento di Guido Grassi alla Scuola di applicazione di Torino, chiamato a succedere Galileo Ferraris, dell'insegnamento di un docente di altissima fama, Luigi Lombardi, presidente del Comitato elettrotecnico italiano e del Comitato internazionale per il vocabolario elettrotecnico, socio dell'Accademia dei Lincei, senatore del Regno[16]. La collaborazione tra mondo accademico e realtà industriale portò ad uno sviluppo notevole del settore, che permise di dotare il Mezzogiorno delle necessarie infrastrutture elettriche: centrali di produzione, laghi artificiali, reti di trasporto, distribuzione e telecomunicazioni, stazioni elettriche, cabine[17]. Le prime importanti realizzazioni per la produzione ed il trasporto dell'energia, fuori dal campo pionieristico, furono dell'ultimo decennio dell'Ottocento. La prima grossa azienda che entrò in scena fu la Società generale per la illuminazione, che nel 1888 impiantò una centrale elettrica nell'area oggi occupata dal teatro Politeama. Nel 1890 la SGI sottoscrisse un accordo con il Comune, per l'illuminazione del San Carlo, della Galleria Umberto e del Corso. Un'altra azienda, la Società napoletana per imprese elettriche produceva e distribuiva corrente alternata nei comuni limitrofi di Napoli. Nel marzo 1899 fu costituita, con capitali in prevalenza svizzeri, la Società meridionale di elettricità, con lo scopo di costruire una centrale sul Tusciano ed alimentare le fabbriche di Salerno e di Torre Annunziata. Questa azienda era, però, destinata a travalicare di molto l'obiettivo iniziale e a divenire la più importante impresa industriale del Mezzogiorno d'Italia ed il motore di molte iniziative produttive e non solo nel campo elettrico[18].
Il processo di trasformazione tecnologica che, dopo l'avvento dell'industria elettrica, interessò tutti i principali settori produttivi e l'intera organizzazione civile della società, fece crescere l'esigenza di aggiornate competenze professionali a tutti i livelli. Nella società civile napoletana di quegli anni erano sempre più intensamente sentiti e discussi i problemi relativi alla preparazione professionale di maestranze e tecnici da impiegare nelle industrie. Dagli atti del R. Istituto d'incoraggiamento emerge un fervore di dibattiti e discussioni sullo stato degli studi. Nella tornata del 14 febbraio 1895, l'ingegnere Giuliano Masdea presentava alcune considerazioni sulla necessità di raccordare direttamente la sezione fisico-matematica degli istituti tecnici con la Scuola degli ingegneri, sull'esempio dell'Istituto superiore di Milano e della Scuola superiore navale di Genova. Il professore Emanuele Fergola si mostrava, invece, in disaccordo: «Facilitato e reso più breve il corso della Scuola di applicazione il numero degli aspiranti ingegneri aumenterebbe certamente, perché nulla seduce tanti giovani e famiglie quanto la brevità del tempo per conseguire una laurea. Ma dopo non sarebbe anche più aumentato il numero degli spostati?»[19]. Nella questione intervenne anche il direttore della Scuola di applicazione, Guido Grassi, ricordando che il solo criterio da seguire era di «dare tutta l'istruzione necessaria», ma avvertiva che per ottenere il passaggio dall'istituto tecnico alla Scuola di applicazione bisognava aggiungere almeno un altro anno alla sezione fisico matematica, e dare maggior spazio, a partire dal terzo anno all'insegnamento della matematica, della fisica, della chimica e della mineralogia, senza sacrificare, però, la cultura generale[20]. Qualche anno prima, nel 1887, un opuscolo del deputato provinciale Giuseppe Orlandi sulla necessità di dare un assetto definitivo alla cultura tecnico-professionale della provincia, fu accolto con grande favore[21]. Nello specifico Orlandi indicava nella costituzione di tre scuole, quella superiore di commercio, di ingegneria industriale e di costruzioni navali, la soluzione al problema di una adeguata preparazione tecnica superiore, fondamentale in una regione che si avviava al conseguimento di un adeguato sviluppo economico sia sul piano delle industrie che su quello dei traffici. L'amministrazione provinciale fece proprie le richieste del deputato napoletano, ma, ancora una volta, l'indisponibilità di fondi rese vano ogni progetto.
Intanto i direttori che ressero la Scuola di applicazione in quegli anni, Achille Sannia dal 1887 al 1890, Francesco Mauro dal 1890 al 1893, Guido Grassi dal 1894 al 1899, Gaetano Bruno dal 1899 al 1909, si impegnarono a sviluppare ed accrescere le attrezzature didattiche e di ricerca. Nel 1886 il professore Masoni fu incaricato di studiare l'impianto di un gabinetto di idraulica sperimentale, contenete non solo la raccolta completa di tutti gli strumenti idrometrici per le osservazioni sui fiumi e sui canali, ma anche speciali apparecchi per eseguire ricerche pratiche sulle luci e sulle condotte forzate. Negli stessi anni Ernesto Isè, docente di Scienza delle costruzioni, allestì un importante laboratorio su una superficie di 350 mq., che divenne il più importante centro di ricerca nel settore della resistenza dei materiali del Mezzogiorno[22]. Ma l'impegno maggiore della direzione della Scuola fu indirizzato alla costituzione di una sezione industriale. Il principale promotore dell'iniziativa fu il direttore Gaetano Bruno che «fece sempre dell'impianto di una sezione industriale un apostolato, raccogliendo all'uopo da molti autorevoli personaggi consiglio ed incoraggiamento»[23]. Nella comunicazione che il professore Udalrigo Masoni, docente di Idraulica teoretica e pratica, fece, quale socio ordinario, nel 1901, al R. Istituto di incoraggiamento, Sullo sviluppo dell'insegnamento tecnico superiore, veniva ribadita l'importanza di formare anche a Napoli ingegneri industriali[24]. A sostegno delle sue idee, Masoni illustrava quanto si era realizzato o si veniva realizzando negli altri paesi, a cominciare dalla Germania dove l'efficacia formativa dell'educazione industriale praticata nei politecnici di Brunswick, Dresda, Hannover, Darmstadt, Karlsrhue e Berlino le aveva permesso di raggiungere e superare la tecnologia inglese. Per l'Italia, ricordava il successo delle sezioni industriali di Milano e Torino. In quest'ultima, mentre, alla fine del primo corso, nel 1881, i laureati erano stati 14, nel 1898 i diplomi erano saliti a 55. A Milano, nello stesso anno, su 75 diplomi di laurea, 53 erano stati di ingegneri industriali, 21 di ingegneri civili e 1 di architetto. « E bisogna convenire - aggiungeva Masoni - che ove l'azione del governo fosse stata più sollecita nel coadiuvare gli sforzi e le iniziative prese dalle amministrazioni locali e dai privati anche in altri parti d'Italia si sarebbe raggiunto quello sviluppo negli studi superiori che si è innanzi notato per Milano e Torino». Invece, a Napoli «malgrado il largo consenso deliberato dalle amministrazioni non fu possibile superare gli ostacoli che si frapposero dal governo centrale»[25]. Fra gli ostacoli il progetto di legge, con il quale si tendeva a dare alle università italiane un ordinamento unitario ed autonomo, il che poneva in pericolo l'autonomia delle scuole di applicazione[26]. Alla fine, la tenacia della direzione della Scuola e degli enti locali, che assicurarono i mezzi finanziari, permise di vincere le resistenze del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. Il 14 ed il 24 ottobre 1901 furono emanati i decreti che istituivano a decorrere dal 1° novembre la Sezione industriale della Scuola di applicazione degli ingegneri di Napoli, e davano avvio al primo corso. Al termine del primo triennio, gli ingegneri industriali licenziati dalla Scuola erano cinque, ma il numero era destinato quasi a quadruplicarsi l'anno dopo. Un apporto qualificato alla definitiva sistemazione di questa sezione, fu dato dalla Reale Commissione per l'incremento industriale di Napoli, che, raccolse in una densa e documentata relazione il frutto dei suoi studi e la formulazione delle sue conclusioni. Relativamente alla Scuola napoletana per la formazione degli ingegneri, la Commissione, dopo un'approfondita indagine era giunta alla conclusione che «Napoli anche essa ha nel campo delle discipline scientifiche nobilissime tradizioni, e per seguire il movimento moderno, che coinvolge tanta trasformazione di forze produttive, deve mettersi a sua volta in grado di procurare non soltanto ai suoi, ma benanche ai figli di tutte le terre meridionali, l'istruzione tecnica superiore completa: solamente a tal prezzo essi diventeranno veramente capaci e volenterosi di affrontare, con coraggio e successo, la risoluzione dei gravi problemi, che più direttamente si connettono con la direzione economica desiderata. Pochi ingegneri industriali, qui educati, ed affezionati veramente al loro paese, basteranno per mettersi alla testa delle industrie nuove, o riscattare quelle pericolanti, dal fiorire delle quali avranno alimento onorato centinaia di famiglie, e vantaggio incalcolabile tutta la ricchezza di queste province»[27]. Pertanto la Commissione deliberava «che sia definitivamente sistemata la Sezione industriale della R. Scuola d'Applicazione degl'ingegneri di Napoli, mettendola a livello di quella di Torino e di Milano, con la creazione di nuovi insegnamenti, massime nel campo dell'elettrotecnica e coll'aumento necessario dell'organico e delle dotazioni dei Gabinetti»[28].
La scuola si avviava, così, a riprendersi il suo posto tra le protagoniste del XX secolo, «educando adeguatamente le menti direttive», come scrisse il direttore Gaetano Bruno nel 1906, «al beneaugurato e progressivo incremento di questa diletta Napoli, che avendo tanto perduto delle sue nobili tradizioni di capitale, ed emulata dall'espansione delle altre metropoli italiane, cerca ora nel campo industriale il benessere e rigoglio della vita cittadina»[29]. Proponendosi inizialmente nelle funzioni di costruttori di edifici, di idraulici e bonificatori, di progettisti di strade e ponti, gli ingegneri di ponti e strade, grazie alle specializzazioni offerte dalla Scuola napoletana, riuscirono ad imporsi nei settori più aperti alle moderne applicazioni dell'ingegneria, dalla realizzazione di grandi infrastrutture, strade ferrate ed opere portuali, alla progettazione delle prime reti di servizi, acquedotti, fognature, sistemi elettrici.
Fonte: R. Scuola di Applicazione per gl'ingegneri in Napoli, Pubblicazione deliberata dal Consiglio Direttivo in occasione della Esposizione Nazionale di Torino, Napoli 1898; nostra elaborazione
Fonte: R. Scuola di Applicazione per gl'ingegneri in Napoli, Pubblicazione deliberata dal Consiglio Direttivo in occasione della Esposizione Nazionale di Torino, Napoli 1898; nostra elaborazione
Fonte: G. M. Lupo - L. Sassi, La formazione politecnica e i quadri professionali per l'edilizia e la città, in Torino, fra Otto e Novecento, in «Storia urbana», XVI, n.61, ott-dic 1992; nostra elaborazione
[1] ASN, Ponti e Strade, II numerazione, fs. 136/1, Decreto istitutivo della Scuola d'applicazione del 4 marzo 1811
2 G. Russo, La scuola di ingegneria in Napoli, 1811-1967, Napoli 1967, p. 168
3 C. G. Lacaita, Ingegneri e scuole politecniche nell'Italia liberale, in Fare gli italiani. Scuola e cultura nell'Italia contemporanea, a cura di Simonetta Soldani e Gabrriele Turi, Bologna 1993, p. 224 s
4 Aa. Vv., Il Politecnico di Milano 1863-1914, Milano 1981, p. 71
5 C. G. Lacaita, Sviluppo e cultura. Alle origini dell'Italia industriale, Milano 1984, p. 181
6 Id, Ingegneri e scuole politecniche cit., p. 225
7 A. Maiuri, Elogio di Fortunato Padula, Napoli 1882, p. 7
8 «La Scuola di applicazione ha dovuto camminare il meglio che ha potuto nel primo anno di sua nuova esistenza, acquistando solo gli oggetti più indispensabili, sia per le lezioni di chimica, sia per quelle di meccanica applicata e di costruzioni. Intanto nello scorso anno sono stati eseguiti quasi per intero i lavori approvati per la riduzione del locale, ma nel progetto eransi considerate soltanto le opere per preparare le sale, e non già tutti gli altri lavori e spese per poterne far uso. Così per esempio, nel progetto era stabilito il locale pel laboratorio di chimica, ma non si parlava della costruzione di fornelli e di quanto altro occorra per mettere in esercizio il laboratorio (...) Intanto anche per questo anno il Ministro di Pubblica Istruzione ha dichiarato non esservi fondi per spese straordinarie da potere impiegare per la nostra Scuola di applicazione. I fondi assegnati sulla cassa delle lauree sono esauriti, onde i lavori saranno ben presto sospesi, e la Scuola avrà soltanto delle sale per le lezioni orali e di disegno, ma mancherà di collezioni, modelli e laboratori». Relazione del direttore Fortunato Padula del 12 gennaio 1865, in G. Russo, op. cit., p. 180
9 R. Scuola di Applicazione per gl'ingegneri in Napoli, Pubblicazione deliberata dal Consiglio Direttivo in occasione della Esposizione Nazionale di Torino, Napoli 1898, pp. 5 s.
10 Regolamento generale per le regie scuole di applicazione per gli ingegneri in Italia. Decreto Reale 8 ottobre 1876, artt. 3, 4, 5, 6 in R. Scuola di Applicazione per gl'ingegneri in Napoli..., cit.
11 ASN, Ponti e Strade, II numerazione, fs. 177 Atti del concorso di ammissione 1829
12 G. Russo, op .cit., p. 187
13 A. Mendia, Relazione sulla R. Scuola d'applicazione per gl'ingegneri in Napoli, Napoli 1884, pp. 16 s.
14 C. G. Lacaita, Ingegneri e scuole politecniche cit., p. 234
15 Id, Sviluppo e cultura cit., p. 185
16 G. Maione, L'Elettrotecnica e l'Istituto elettrotecnico della Università di Napoli 1886-1961, Napoli 1961, pp. 45 ss.
17 Nel 1932 fu costituita, presso la Regia Scuola di ingegneria, la Fondazione politecnica del Mezzogiorno d'Italia, con la partecipazione della Società meridionale di elettricità di Giuseppe Cenzato, del Banco di Napoli, dell'Ente autonomo acquedotto pugliese, dell'ILVA, dell'Ente autonomo Volturno e di altri istituzioni economiche e produttive meridionali. Le finalità indicate nell'atto costitutivo erano la promozione della cultura tecnica e delle attività industriali. Furono sviluppati programmi di studio e sperimentazioni nei campi delle sovratensioni, dei fenomeni della corrosione, dei materiali da costruzioni, sul comprensorio della Sila, sul piano regolatore di Napoli e sulla editoria tecnica.
18 G. Salvietti, Le carte della luce. L'archivio storico dell'ENEL, in Scienziati artisti, Formazione e ruolo degli ingegneri nelle fonti dell'Archivio di stato e della Facoltà di Ingegneria di Napoli, Napoli 2003, pp. 331 s.
19 E. Fergola, Sugli studi tecnici, in «Atti del R. Istituto d'incoraggiamento», VIII, Napoli 1894, pp. 10 s.
2o G. Grassi, L'istituto tecnico e il liceo come avviamento agli studi di ingegneria, in «Atti del R. Istituto di Incoraggiamento», VIII, Napoli 1894, p.12
21 G. Orlandi, Per le scuole superiori commerciale, industriale, navale da istituirsi in Napoli, Napoli 1887
22 Ernesto Isè (1837-1916) fu alunno della Scuola di applicazione nell'ultimo decennio borbonico, classificandosi primo del suo corso. Ingegnere di III classe del Genio civile fu, fino al 1874, addetto al settore dei lavori pubblici nella provincia di Avellino. Trasferitosi a Napoli aprì uno studio privato, dove dettò i corsi dei primi tre anni della facoltà di matematica. Passato dall'insegnamento privato a quello pubblico fu professore di Statica grafica e Scienza delle costruzioni alla Scuola degli ingegneri dal 1880 al 1912.
23 G. Bruno, R. Scuola Superiore Politecnica di Napoli, in «Monografie delle Università e degli Istituti Superiori», Roma 1913, p. 189
24 U. Masoni, Sullo sviluppo dell'insegnamento tecnico superiore, in «Atti del R. Istituto di incoraggiamento», II, Napoli 1901, pp. 1-15
25 Ibidem
26 G. Russo, op. cit., p. 218
27 Relazione della Real Commissione per l'incremento industriale di Napoli, Napoli 1903, p. 55
28 Ivi, p. 255
29 G. Bruno, Relazione sulla R. Scuola Superiore politecnica in Napoli, Napoli 1907, p. 196